Visioni

Filmmaker, un passo a due tra le immagini

Filmmaker, un passo a due tra le immagini«Darkness, Darkness...» (G. Rouard)

Cinema Al festival milanese l’epifania della giovanissima Binarelli, la migrazione da ricostruire di Khaled Abdulwahed, l'omaggio alla sperimentatrice francese della pellicola Gaëlle Rouard. Incontro, rispecchiamento e memoria, la manipolazione delle fonti

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 23 novembre 2023

Un’unica scena. Una ragazza nuota in un lago. La luce estiva illumina l’acqua, il corpo dell’adolescente, le montagne sullo sfondo, il cielo. Lei si chiama Annalucia (Gelmini), si immerge e emerge dalla superficie acquatica. E parla con la regista (Lea Binarelli), fuori campo, sua coetanea. Si instaura un dialogo tutto al femminile tra due donne, tra una voce e un corpo visibile e una voce senza corpo. Ma la distanza tra quanto mostrato e quanto nascosto alla visione si infrange, sparisce, Annalucia guarda in macchina, guarda Lea rispondendo alle sue domande, le convenzioni cinematografiche, le «regole» che le rappresentano, svaniscono, si materializza un rispecchiamento tra chi è filmato e chi filma, una relazione intima fatta di seduzione, incanto, desiderio nel guardare e nell’essere guardata, mentre si parla – con naturalezza – di amore, affetto, amicizia, innamoramento (la fidanzata di Annalucia che lei preferisce chiamare «compagna» perché parola declinabile in tante forme di esperienze), famiglia, rapporto con il proprio corpo. Tutto ciò accade in Annalucia (presentato nel concorso Prospettive di Filmmaker Festival di Milano) e, sorprendente, in otto minuti scarsi di durata. Una folgorazione, una delle «cose» più flagranti viste quest’anno. Un’epifania visiva dove anche la «messa in scena» assume nuove prospettive, pure in questo senso slabbrando i confini, lasciandoci liberi di credere alle sfumature del reale, alla finzione che aleggia, al documentario che sfugge, fortunatamente, alle sue rigidità.

TUTTO È GIOVANE, e per una volta non è un eufemismo. Lea Binarelli è nata nel 2006. Il film è stato sviluppato all’interno del progetto di un percorso scolastico a indirizzo audiovisivo e multimediale del liceo artistico Preziosissimo Sangue di Monza coordinato da Samira Guadagnuolo e Tiziano Doria che, oltre a essere due filmmakers d’immenso talento – ostinatamente al lavoro sul 16mm, come si è visto anche nella loro opera più recente L’albume d’oro inserita nel concorso internazionale del festival – con il loro lavoro didattico sono divulgatori e scopritori di nuove possibili voci per un cinema italiano del futuro. In quello specchio (non soltanto) d’acqua prende forma un’esperienza di condivisione – in un film contenente numerosi stacchi a nero, improvvisi, densi, come si trattasse di un respiro, un battito d’occhi, delle pause, a esprimere quel vissuto/filmato – che si conclude con un gesto teorico e politico. Annalucia, lo dice in alcuni momenti, non ha problemi con la nudità e, sulla richiesta di Lea se si spoglierebbe per lei, lo fa. Ma solo per lei. Lei la vedrà nuda, e non lo spettatore. Il voyeurismo è negato. Spogliarsi è una questione di fiducia verso l’altro che conosci, non per «chiunque».

«Background» (K. Abdulwahed)

È un rapporto tra due persone anche quello che sta alla base di Background (tra i titoli del concorso internazionale, in proiezione questa sera al cinema Arlecchino alle 19 in presenza dell’autore) del regista, artista e fotografo siriano (vive a Lipsia) Khaled Abdulwahed (nella sua filmografia che affonda lo sguardo nel quotidiano e nella Storia del Medio Oriente c’è anche Purple Sea, realizzato nel 2020 con Amel Alzakout e mostrato a Filmmaker). Un figlio, il regista, che sta in Germania, e un padre, rimasto ad Aleppo.

SEPARATI dalla guerra in Siria e uniti dalle conversazioni telefoniche, spesso problematiche, che Khaled ha registrato per introdurne delle parti nel film. Non quindi un dialogo riproposto, bensì la rievocazione della voce del padre (nel frattempo scomparso) che racconta fatti della sua storia, fin da quando studente andò a studiare in Germania dell’Est, mentre sullo schermo appaiono paesaggi tedeschi odierni così come luoghi che il genitore dice di avere frequentato e sulle cui tracce si mette il figlio. E poi ci sono poche vecchie fotografie dell’uomo che Khaled manipola al computer cercando di dare a esse nuove collocazioni e di trovare delle risposte. Background è un film di corpi e di fantasmi, sulla presenza di un’assenza, sulle voci di due corpi che non si vedono. Del regista vediamo le mani al lavoro: a pulire una macchina fotografica, a toccare oggetti, a ritagliare le foto del padre. In un film che opera sulla ri-costruzione, la manipolazione delle fonti, la relazione «impossibile» tra luoghi e corpi nel corso del tempo.

Alla manipolazione più radicale e sensuale si dedica Gaëlle Rouard nel suo primo lungometraggio Darkness, Darkness, Burning Bright, girato in 16mm (domani sera al cinema Arcobaleno alle 19.30 alla presenza dell’autrice alla quale il festival riserva con questo film un omaggio). Cineasta sperimentale francese, alchimista, artista performativa, esploratrice di vari metodi di trattamento chimico della pellicola, Rouard con Darkness, Darkness, Burning Bright compie, e fa compiere a chi guarda, un viaggio nella natura consegnato alla visione e all’ascolto (ma non ci sono dialoghi), alla contaminazione del materiale, la pellicola, al fine di creare un costante sospendere e ri-aprire la visione, alla distribuzione nella colonna sonora di suoni (composti dalla regista), rumori, musica elettronica, canti e espressioni vocali senza parole.

SI TRATTA DI partecipare a un’esperienza sensoriale dove vallate, montagne, prati, vegetazione, animali, alberi, foglie vengono resi come se a vederli fosse l’occhio di un extra-terrestre che si posa sulla Terra producendo un suo punto di vista. Rouard rende astratto il concreto mantenendone la concretezza materica, elabora una costellazione di immagini e suoni, un «arcobaleno (o)scuro», una Terra oltre la Terra, un altrove. Film, il suo, abitato dagli sfarfallii della pellicola, dalla danza di punti luminosi che appaiono dal e nel buio, diviso in due parti (Prelude e Oraison), che si spinge sempre più nei territori, dello spirito e della carne, di una preghiera abitata da forme scontornate, di bruciante lucentezza, evocanti sperimentazioni pre-cinematografiche e un senso di fantastico mélièsiano.

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