Scritto nel 1820 da Ernst Theodor Amadeus Hoffmann a mo’ di capriccio alla maniera delle incisioni di Jakob Callot, La Principessa Brambilla (ritradotto e annotato da Giulia Ferro Milone, in uscita il 9 febbraio per L’Orma, pp. 192, € 18,00) non è un testo per chi prende tutto maledettamente sul serio: questa avvertenza dello stesso autore, è fondata sul fatto che la sua è – com’è noto – una fiaba sul Carnevale, cui vengono posposte alcune osservazioni di Baudelaire sul comico e sul grottesco (tradotte da Lorenzo Flabbi).

La storia non è presto detta: vi compaiono, infatti, un turbinio di situazioni che si intrecciano l’una nell’altra ruotando attorno alle avventure di alcuni personaggi – gli innamorati «trovati», Giacinta e Giglio più Brambilla e Cornelio, che ancora si cercano – e altri comprimari senza l’«aiuto» dei quali questa rocambolesca, e a suo modo intensamente musicale, vicenda carnevalesca, non si svilupperebbe.

Sullo sfondo di via del Corso e via Condotti, del teatro Argentina e del Caffè Greco, questa folle storia del rapporto tra amore e realtà, tra amore e sogno-illusione, tra amore e umore, porta l’impronta di un romantico che ha fatto proprio l’assurdo, l’inverosimile grottesco, affacciato dalle maschere carnevalesche.

Nessun carattere simbolico, indicatore di una superiore realtà nascosta, che attraverso il gesto poetico e la fiaba si rivela al protagonista, com’era nel mondo di Novalis; nessun universo significante che a tratti si palesa e traspare nel cosiddetto reale, trasfigurandolo. Qui e altrove, il mondo narrato da Hoffmann si presenta per contrasto, «per assurdo».

Le considerazioni sul sogno del secondo capitolo, per esempio, si concludono così: «lo spirito porta a spasso il corpo come un abito scomodo, sempre troppo largo, lungo, mal fatto», dove il contrasto corpo-spirito, che serve a rivelare il mondo altro, è un espediente così attivo, nel ricorso al grottesco, all’ironia, al fantastico e a tutti questi insieme, da condizionare questo mondo, il mondo della storia narrata. Intanto, la sarabanda del Carnevale si mescola con la realtà, e lo scambio dei ruoli e dei personaggi (maschere e esseri umani, ricchi e poveri, nobili e popolani) assume l’aspetto di un gioco fantasmagorico, che trascina a forza il lettore non consentendogli di immergersi in una distanza sognante.

Nelle sue considerazioni, proprio il modo in cui Hoffmann sa mescolare basso-comico e alto-assoluto, ottenendo, nel riso, di ritrovarsi al tempo stesso nella natura e nell’essere umano, fanno dire a Baudelaire che La principessa Brambilla è «una sorta di catechismo di alta estetica», dove Hoffmann si ritrova, anche, tra le voci letterarie che giungono fino allo Hesse del Lupo della steppa.