Michele Lucchese (da Michelangelo), “Sogno”, part., 1540-’45, bulino

 

La letteratura artistica cinquecentesca ha condannato in diverse occasioni gli artisti che utilizzavano le incisioni come appoggio all’invenzione. Lomazzo e Armenini rimproveravano l’uso di idee altrui che generava «confusione degl’animi nostri». Il rischio era quello di indebolire l’ingegno limitando l’esercizio creativo, invaghendosi dei «trattolini troppo minuti» di qualcun altro; finendo per ridursi a imitatori o, peggio, a semplici coloristi.
La polemica si poneva sulla scia del dibattito teorico sul ruolo intellettuale dell’artista, in fondo nobilitato da poco, e per forza delle clamorose invenzioni della maniera moderna. Da qua la reticenza; il rischio di compromissione era forte. Bisognava, perlomeno, avere l’accortezza di ridurre l’apporto delle incisioni «con qualche mutatione» di modo che «non paia ch’elle vi siano come in prestito».
Le indagini sul ruolo giocato dalle stampe nella cultura figurativa cinquecentesca si sono moltiplicate negli ultimi anni. È per esempio chiaro da molto tempo il loro peso nella diffusione del classicismo raffaellesco, o per la fortuna di Michelangelo o, ancora, nell’orientamento delle tendenze espressive sollecitato dal sistematico utilizzo delle xilografie nordiche, e di Dürer in particolare.
I repertori online su cui sono riversate le enormi collezioni grafiche dei musei (con qualche raro caso italiano), hanno inoltre reso la vita dei ricercatori più facile. Non serve più passare giornate intere sfogliando in biblioteca il Bartsch e l’Hollstein. Per assurdo, però, questo magnifico gioco di associazioni che si può fare anche con il cellulare o con il tablet, magari tra una metro e l’altra, non significa un bel niente se non è supportato da un esame coscienzioso sui motivi di ogni impiego e su uno sguardo che si allarga al fenomeno in un dato tempo e in un dato luogo. Sembra un monito per il presente: le immagini, anche quelle con un nome e un cognome, hanno vita breve se non sono parte di un disegno critico più ampio.
Il libro di Francesco Ceretti, Genovesino e le carte stampate (Officina Libraria, pp. 140, euro 29,00), è un esempio positivo in questo senso. Posto sulla scia delle recenti mostre monografiche sul pittore, il saggio scava fino alla radice della pratica pittorica di Luigi Miradori detto il Genovesino (1605-’56) e quindi sull’uso tutto particolare che l’artista fa delle stampe, per poi estendere rapidamente l’obiettivo a tutto il secolo.
I fenomeni cinquecenteschi a cui si accennava sopra non valgono per il Seicento, e c’è ancora tempo, e bisogno di ulteriori indagini per fare – se ce ne fosse bisogno – delle generalizzazioni. Del resto, ricorrere a un’incisione piuttosto che a un’altra non determinava per forza una ricaduta sullo stile. L’offerta di rami si era infatti ampliata moltissimo. L’acquaforte, che lungo il secolo precedente aveva gradualmente soppiantato o accostato il bulino, permetteva agli artisti un approccio alla stampa più libero e quindi una produzione più ampia e variegata. Cartelle piene di carte stampate stavano perciò in ogni bottega ed erano il materiale su cui gli apprendisti si formavano. Come ha già detto intelligentemente qualcuno, erano il primo manuale di grammatica per i futuri pittori.
L’approvvigionamento di rami avveniva in negozi specializzati, librerie, fiere o da venditori itineranti. Ovviamente gli approcci – e quindi gli acquisti – erano differenti in base alle scuole, alle culture figurative di provenienza, ma anche al modus operandi dei pittori. Ceretti scava nei contesti attraversati dal Miradori a partire da Genova, città d’origine dell’artista. Lì le incisioni si potevano vedere e acquistare sui banchi di Sottoripa, la zona porticata antistante il porto vecchio, frequentata – almeno stando a Raffaele Soprani – dai Semino, Perin del Vaga e altri artisti, e più tardi da Giovan Battista Carlone o Pellegro Piola che suggeriva ai colleghi, con una definizione colorita quanto efficace, di «condir col sale delle stampe le insipidezze delle loro tavole».
Quello che stupisce anche solo sfogliando il libro di Ceretti è la quantità di riferimenti alle stampe che Genovesino nasconde «con qualche mutatione», come suggeriva Armenini, nelle sue opere. Non è lo sfruttamento passivo fatto per pigrizia biasimato da Lomazzo e Armenini. A volte sembra un gioco, quasi una sfida agli osservatori, ai cultori, come lui, di carte stampate. Altre volte la citazione è smarcata, altre difficilissima da comprendere. Sempre, però, il frutto di un’abitudine che è propria del maestro, verosimilmente assimilata durante la formazione. In soli due casi noti Genovesino dichiara, accanto alla firma, che l’opera è «adulterata», forse mutuando proprio dalla pratica degli incisori che richiamavano sui loro fogli il nome dell’ideatore del disegno o dell’opera tradotta a stampa; forse per onorare un maestro, o per attivare un enigmatico rispecchiamento richiesto dai committenti.
In questa ricerca sistematica emergono varie ragioni per cui un pittore come Miradori può accostarsi ai rami: per aggiornarsi, per riprendere un originale celebre e quindi legarsi a una tradizione figurativa, per seguire l’indirizzo di una scuola pittorica o per ricavare dalle stampe dettagli che altrimenti non avrebbe potuto conosce. Per esempio, l’aspetto di bestie che non era facile vedere in giro per la Penisola, come i leoni.
Sarebbe naturale pensare che tutto questo rimescolamento di fogli possa dare vita anche a un ripensamento della tradizione figurativa del passato più o meno prossimo, ma sembra che Genovesino si tenga a distanza da pensieri troppo profondi che l’avrebbero allontanato dai suoi scopi. La citazione dei modelli, anche quando è scoperta, è sempre funzionale all’opera e a quella solamente, senza che emerga mai un disegno teorico più vasto. Tranne, forse, nei casi in cui l’omaggio è manifestato anche attraverso l’emulazione dello stile pittorico: lì però l’arricchimento della cultura figurativa dell’autore non passa solo attraverso la stampa, che diventa piuttosto un appoggio mnemonico per un originale visto altrove.
Il libro si chiude con uno sguardo sintetico d’insieme sull’uso delle incisioni nella pittura del Seicento, senza pretesa d’esaustività ma con l’apertura di qualche possibile pista d’indagine. Pur nel grande mare della pittura del secolo, fanno comunque impressione certe infilate di derivazioni, il continuo ritorno a Mantegna e Dürer, per esempio, o la diffusione fulminea e amplissima di certe invenzioni come quelle di Callot o, ancora, gli aggiornamenti via carte stampate, come quello dei Nuvolone su Vouet. Tutti questi carotaggi, tra conferme e novità, rafforzano il ruolo avuto dalla stampa come mezzo privilegiato per la propagazione della cultura figurativa. Un’attenzione ai rami di cui spesso dimentichiamo l’entità, valida anche per chi si occupa di decorazioni, per gli architetti e, forse in misura un poco diversa, anche per gli scultori.