La notizia della sua morte mi è arrivata di notte da Giovanni Porzio e si è infilata tra le mie quattro costole rotte e uno pneumatorace. Fa male, perché Ettore Mo mi tenne a battesimo da inviato. Era un’estate di primi anni Ottanta alla redazione esteri del Corriere della Sera: tutti aspettavamo da settimane una telefonata di Ettore, disperso tra Pakistan e Afghanistan sulle montagne dei mujaheddin che combattevano contro i sovietici.

CORREVANO LE IPOTESI ma quasi tutti eravamo fermamente convinti che fosse nascosto dentro qualche grotta e che prima o poi sarebbe spuntato da qualche parte come un folletto inafferrabile a raccontare la guerra e le gesta del suo amato comandante Massud. Squillò il telefono e toccò a me rispondere. Era lui, pronto per dettare il pezzo. Soffocato dall’emozione per sentirlo ancora vivo, dovevo scrivere l’articolo più importante della mia giovane carriera, quello che tutti aspettavano con ansia, nelle mie mani c’era la prima pagina, scritta da uno dei più grandi inviati del secolo. Alla fine ero stremato dalla tensione ma Ettore trovò il tempo anche per fare una battuta: «La prossima volta sarai qui anche tu…».

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PASSARONO ALCUNI mesi e mentre stavano per chiudere il giornale in tipografia Ettore venne a salutare il direttore Alberto Cavallari. Chi ha preso il mio pezzo l’ultima volta dall’Afghanistan? Chiese con un fare tra il drammatico e lo scherzoso. Vuoi vedere, pensai, che ho scritto qualche fesseria.. Invece Ettore mi abbracciò, aveva compreso tutta la mia emozione e dopo mesi l’aveva riportata indietro: «Dacci dentro – mi disse – dacci dentro più che puoi senza paura, questo è il nostro mestiere».
Poi cominciai davvero a viaggiare con Ettore e altri grandi inviati come Tiziano Terzani, Bernardo Valli, Eric Salerno. Era un intrecciarsi di storia, quella che ci passava davanti agli occhi tutti i giorni, per anni, e le nostre storie personali. I “vecchi” tenevano a fare un po’ da maestri alle nuove generazioni ma attraverso racconti di vita vissuta, non erano lezioni, anzi in ogni storia c’era sempre il seme del dubbio: ma sarà andata davvero così?

IN FONDO COME DICE Bernardo quella del giornalista è la verità del momento. Con Ettore le serate potevano prendere una piega picaresca, così come i suoi racconti, ci teneva moltissimo a mostrarmi che era bravissimo a fare il cameriere, a raccontarmi di quando faceva l’insegnate ai ciechi. Ma in lui c’era anche la vena poetica, musicale e soprattutto l’estrema curiosità per l’essere umano. Ettore sapeva saltare tutte le barriere sociali, quelli culturali e antropologiche con una sfrontatezza leggera per andare a cogliere il punto. Insomma se eri un piccolo borghese un po’ fighetto con lui eri finito, ti prendeva di mira e magari ti mollava pure uno sganassone. Per questo lo amavamo.

Un giorno all’alba dovevamo raggiungere Srebrenica (luglio 1995). Lui aveva 63 anni, io 39, sapevamo soltanto che c’era stato un massacro di musulmani nel cuore della Bosnia, il peggiore dalla seconda guerra mondiale. Ettore era in maniche di camicia con in mano solo il taccuino. Tutto qui?, gli chiesi. Basta e avanza vedrai, mi rispose. In un bosco una donna si era impiccata per non farsi prendere viva di miliziani, un uomo si era fatto saltare in aria con una granata. Il giorno dopo avevamo esaurito le parole per descrivere l’orrore.