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Essere giusti (ma severi) anche con Zinga

In una parola

In una parola Le dimissioni del segretario del Partito democratico e noi

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 9 marzo 2021

Che pensare delle clamorose dimissioni di Nicola Zingaretti?  Un gesto di debolezza irresponsabile, annunciato come al solito via social, con tanto di concessione linguistica al senso comune populista: “vergogna” per un partito in cui si parla solo di “poltrone” mentre infuria la pandemia.

Oppure decisione coraggiosa. Rottura che disvela uno stato di cose non più sopportabile. Che, chissà, determina nuove ipotesi nella dinamica caotica in cui ogni necessità è abbandonata al caso dei giochetti di potere. Un rifiuto che suscita simpatia. Eppure conferma che le uniche azioni dirompenti in ciò che resta dei partiti, soprattutto nell’area grosso modo di sinistra, sono di segno negativo. Scissioni, abbandoni, dissensi, trame per far fuori l’avversario di turno.

Certo non mancano i motivi di una reazione che dice: la misura della sopportazione è al colmo. Nei giorni scorsi si era appena conclusa la direzione del PD approvando le primarie per il nuovo segretario nel 2023, quando dalla minoranza (ex) renziana partiva un fuoco di fila: congresso subito, dimissioni dalla vicesegretria di Orlando, entrato al governo, no all’alleanza con Grillo. Più varie barriere di sbarramento, anche verso le ipotesi di nuove responsabilità al vertice di salvifiche figure femminili.

Zingaretti ha poi addolcito le sue parole, promettendo che non si dimetterà dalla battaglia politica: il suo – ha detto affacciandosi domenica sera alla trasmissione di Barbara D’Urso, e così sfidando gli snob che non sopportano la signora di Mediaset e i complimenti che l’ex segretario le ha indirizzato via tweet – è “un atto di amore” per il suo partito.

La scossa farà del bene? Chissà se tutto ciò prelude a quel ritorno in campo di Zingaretti – invocato da Massimo Cacciari – dotato della forza e di un progetto capaci di rifare da capo il Partito democratico – o un’altra cosa – e di riunificare e motivare un campo alternativo alla destra, quando – prima o poi – la meteora Draghi approderà su altri pianeti.

O se più semplicemente, con quel sorriso vagamente rassegnato da bravo ragazzo romano, si limita a dire: ho fatto e faccio quel che so e posso. Adesso sbrogliatevela un po’ voi… Sul Messaggero di sabato 6 marzo uno strano commento di Luca Ricolfi. La “ritirata del Capo” si accompagnerebbe alla “sconfitta del riformismo”, il “sogno” da cui sarebbe nato il Partito democratico immaginato da Veltroni, che sopravviverebbe ora “quasi esclusivamente” nei transfughi di Azione (Calenda) e di Italia Viva.

Su Calenda non mi pronuncio: nei sondaggi (tra 2 e 3 per cento) prende qualche decimale in più di Renzi, forse perché le spara e le fa meno grosse. Quanto a Renzi vorrei proprio capire in che cosa consisterebbe il suo “riformismo”, al di là di una anacronistica adesione al blairismo più fallimentare. Si è presentato come “rottamatore” e finora è riuscito solo a distruggere.  Forse il modo giusto di interpretare il gesto di Zinga è prenderlo come un brusco zapping nella narrazione della politica. Rivolto non solo agli avversari interni nel Pd, ma a tutti coloro che hanno ancora voglia di darsi da fare per inventare una sinistra non minoritaria e subalterna.

A modo suo lo ha letto così Grillo, che ha accompagnato la provocazione (amichevole) al Pd – vengo a fare per un po’ il vostro segretario “elevato” – con una sorprendente apertura ecumenica anche ai “giovani” che seguono Salvini e persino Giorgia Meloni. Ognuno di noi, che ci ostiniamo a pensarci “di sinistra”, dovrebbe fare un esperimento mentale: da quali idee, atteggiamenti, abitudini, oggetti del desiderio, letture, frequentazioni, dovrei “dimettermi” per cercare altrove come fare meglio?

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