Cultura

Esistenze rotte e tragedie ordinarie

Esistenze rotte e tragedie ordinarieMaría Fernanda Ampuero

María Fernanda Ampuero Intervista alla scrittrice ecuadoriana sul suo «Sacrifici umani» (Gran via). Nei dodici racconti uno dei temi principali è la violenza del patriarcato sui corpi delle donne. «La famiglia è ancora intoccabile e le cose intoccabili sono pericolose perché possono diventare fascismo». «L’infanzia è il tempo fragile e complesso di alcune paure, dell’oscurità, dei mostri, della solitudine, dell’inanimato che prende vita»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 26 giugno 2022

Finalmente in italiano Sacrifici umani (pp. 148, euro 15), della scrittrice e giornalista femminista ecuadoriana María Fernanda Ampuero, pubblicato da Gran via nella bella traduzione di Francesca Lazzarato.
Dodici racconti dai titoli che si tengono in una parola sola, che è lasciata come un segno, in cui tutto non è ciò che sembra. Ombre travestite da umani si aggirano in interni che pur assomigliando a delle case hanno l’aspetto di cripte, nelle quali i morti non si riposano ma al contrario sembrano essere presi in un’eterna fuga infernale dagli abusi del dolore.

L’onirico è figura del reale e questa realtà tanto vera parla di sacrifici umani che hanno come protagoniste quasi sempre delle donne. Nelle varie declinazioni d’età ma nello stesso statuto di soggetti minoritari, le personagge di Ampuero abitano un mondo fatto di spazi domestici violenti. Si tratta di un tipo di violenza che ci tocca nelle paure, come quando si entra nella casa degli specchi deformanti dei luna-park e le nostre consuete categorie di interpretazione del mondo perdono le forme abituali rivelando la loro faccia mostruosa, quella dei ricordi di esperienze temute o rimosse.

Molti dei racconti di Ampuero sono costruiti come incubi, con un corteggio di creature all’apparenza non umane e in realtà tanto terrifiche perché spaventosamente lo sono, umane. I connotati angelici di alcuni personaggi rivelano la loro controparte più mostruosa, e i modi più rassicuranti il controcanto perturbante.

Le vite raccontate sono quelle di donne migranti, vulnerabili perché sole e ricattate dalla necessità di sopravvivere. Lo schermo pur precario della personaggia di «Biografia» è rotto a causa della sua povertà e la sua vulnerabilità resa appetibile da voglie assassine. La subalternità discreta della donna delle pulizie protagonista di «Pietà» ruota attorno all’invisibilizzazione delle donne razzizzate, ma anche al carico pericolosamente totalizzante generato dal lavoro di cura. Tutte queste vite sono accomunate da destini terribili, perché scritti secondo tragedie ordinarie.

Diversi racconti della raccolta, ma il primo in particolare, narrano di soggetti invisibili. Nel primo la voce narrante si rivolge a chi legge chiedendo di guardare: come se grazie allo sguardo altrui il soggetto raccontato riesca a esistere. L’invisibilità delle donne narrate è attraversata dall’intersezione delle forme di dominio: di genere, ma anche di razza e di classe. In che modo la violenza patriarcale si serve dell’invisibilizzazione?
Il patriarcato usa l’invisibilità in modo brillante, come per quasi tutto, perché è il vero genio del male. Quando le persone -soprattutto le donne- sono invisibili, i loro problemi non esistono, né i loro diritti. Se non vedi qualcosa, non c’è. L’invisibilità delle donne migranti, ad esempio, consente alle società cosiddette sviluppate di non sentirsi in colpa per aver appoggiato il proprio welfare sulle spalle di queste persone. La disumanizzazione di lavoratori migranti ci fa votare per i partiti di estrema destra e, allo stesso tempo, li condanna a un’economia sommersa che ci avvantaggia perché possiamo sottoporli a situazioni di quasi schiavitù. Vedere, vedere veramente l’altro e l’altra, significa rendersi conto che quella persona soffre e che silenziosamente ci chiede aiuto. Ciò significa che bisogna scendere a compromessi e le persone non vogliono farlo. Se non vedi, è più facile continuare con la tua vita confortevole, stordita e stupefacente.

Nei suoi racconti c’è un dentro e un fuori, anche valoriale. La famiglia e i legami al di là di essa. Il dentro e il fuori casa. Le storie che racconta desacralizzano la famiglia in quanto istituzione, mostrando come invece i legami possano tessersi tra gli individui per scelta. E come le fughe da casa siano liberatorie. Perché questa dicotomia?
Credo che la famiglia sia l’ultima istituzione sacra che ci è rimasta. Possiamo mettere in discussione la chiesa, l’idea di dio, il concetto di patria, le identità sessuali, il genere, ma la famiglia è ancora intoccabile e le cose intoccabili sono pericolose perché diventano molto facilmente fascismo. La famiglia continua ad essere idealizzata perché, certo, gli umani dipendono da essa per continuare ad esistere, ma poter mettere in discussione «onora il padre e la madre» è liberatorio. La famiglia non è quello spazio di gioia e sicurezza che ci vendono i film di Natale. È anche il luogo figurato da cui emergono persone rotte, danneggiate, pericolose, suicide, assassine, traumatizzate. Ci sono padri e madri che ti distruggono per sempre, al punto che devi passare tutta la vita cercando di guarire dal dolore che ti hanno inferto. Quindi sì, sono convinta che dobbiamo scegliere la nostra genealogia e che la famiglia di sangue non sempre ti ama come sei, ma invece proietta su di te le proprie miserie, razzismo, omofobia, grassofobia, ecc. Ciò deve essere rivisto e messo in discussione. Non per abolire le famiglie, ovviamente, ma per accettare che come ogni cosa umana è fallibile, molto fallibile.

Nel racconto «Invasioni» la palude sui cui è costruito un intero quartiere residenziale rivela un’identità in opposizione a quella del padre protagonista. Le acque insieme a roditori e insetti approdano quali veri padroni della terra, aldilà delle pretese del ceto medio, di quelli che «pagavano a rate, erano impiegati in qualche grande impresa, entusiasti degli abiti confezionati in Cina, e sognavano Disneyland». Qual è la realtà sociale a cui fa allusione?
La mia. Vengo da una società – e famiglia – incredibilmente presuntuosa, che nasconde tutto ciò che è fuori dall’ordinario, che non rivela problemi agli altri perché ciò significherebbe mostrare la propria debolezza e non essere ciò che ci si aspetta dalle «brave persone». Allo stesso tempo, è una società in cui coloro che non sono presenti vengono criticati senza alcun tipo di pietà. Una società a doppia faccia, fittizia.
In quel racconto ho usato il simbolo della putrefazione, degli insetti, dei parassiti pericolosi e invasivi per opporli ai sogni egocentrici e classisti del padre della voce narrante. Tutto è costruito sul danno: danno alla natura, danno agli animali, danno agli altri. Il risultato è follia.

I suoi «sacrifici umani» rivelano uno spiccato carattere gotico. Un gotico mai estetizzante, in cui l’infanzia è dipinta come una fase dell’esistenza all’insegna degli abusi più atroci. Cosa c’è di spaventoso nell’infanzia dei suoi giovani personaggi?
L’infanzia è paurosa. È qualcos’altro che è stato idealizzato, giusto? Ma in verità è un tempo di paure: che chi si occupa di te muoia; è il tempo dell’oscurità, dei mostri, della solitudine, dell’inanimato che prende vita. Un’altra cosa straordinaria dell’infanzia è che è estremamente fragile e non è consapevole del pericolo. Mi piace mantenere le mie storie in quell’innocenza perché genera una tensione insopportabile nei lettori. Noi adulti sappiamo che il personaggio del bambino è perseguitato da una mostruosità che lo divorerà, ma il bambino o la bambina non lo sa. Si fidano e questa è la loro sfortuna. Il genere gotico mi ha sempre affascinato e sono contenta che traspaia nel mio libro.

I titoli dei suoi racconti sono composti tutti da una sola parola, a cui possono essere associati aggettivi o articoli ma soprattutto l’immaginazione di una storia. Da dove viene l’amore per le forme brevi?
Dalla poesia. Ho sempre voluto essere poeta, ma in un dato momento della mia vita ho capito che per essere poeta bisogna essere toccati da una luce folle, quasi distruttiva che, nel bene e nel male, non mi ha illuminato. Sento che il racconto è fratello della poesia in quell’oreficeria della parola. Nessuno può essere lasciato, nessuno può mancare, tutti devono evocare qualcosa di molto specifico e creare un’atmosfera che risponda esattamente a ciò che si desidera far capire e sentire ai lettori. L’unica parola nel titolo risponde a quell’ossessione che ho per la poesia: che una sola parola evochi tutte le emozioni che troverai leggendo la storia.

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