L’enigma, innanzitutto. E il potere di racchiudere una storia in un frammento visivo, regalando al soggetto imprevisti raccordi con la realtà e il mondo onirico, proprio come avviene nei quadri fiamminghi. «Nel mio lavoro, voglio che lo spettatore pensi al sottotesto della fotografia». In apparenza, tutto è stilizzato, ma c’è un secondo livello da scoprire nelle immagini di Erwin Olaf, il fotografo olandese morto all’età di 64 anni dopo aver convissuto per più decenni con un enfisema polmonare. Le sue solitarie icone, hopperiane, sospese in un’atmosfera di perenne attesa, sono soggettività straniate che si muovono lungo un pericoloso bilico, fra assenza e presenza.

Nato nel 1959 a Hilversum, nei Paesi Bassi, dagli anni ’80 si era trasferito ad Amsterdam in uno studio alloggiato dentro una chiesa sconsacrata. Attivista Lgbtq+, Olaf era stato nominato cavaliere dal governo del suo paese proprio in omaggio al lavoro politico sui diritti della comunità gay, a cui ha dedicato nel tempo molti reportage e mostre. I suoi esordi furono quasi fortuiti: un docente lo notò, annoiatissimo, a una lezione di giornalismo e lo chiamò a frequentare il suo corso, tutto visuale. Erwin Olaf fotografo nacque così e continuò su quella strada portando con sé alcuni numi tutelari come Weegee, Mapplethorpe e Witkin, tutti grandi «riplasmatori» dell’immaginario che interroga il corpo umano in direzione di un’estasi che non rispetta confini.

Provocatorio, disturbante, spesso disorientante – anche quando firma importanti campagne pubblicitarie per le quali agisce sempre in libertà e seguendo il suo intuito – Erwin Olaf portò a segno i primi successi con Chessmen, in bianco e nero: «nature morte» costruite con interferenze del fantastico nella «normalità» del corpo. Altre sue serie richiamavano la cinematografia americana degli anni ’50, come Rain e Hope, mentre in Hotel trasformava quel dislocamento fisico transitorio in un’alienazione statuaria, creata dalla lontananza di ogni familiarità con il luogo «vissuto» (la stanza d’albergo e l’anonimo passaggio).
Un genere a sé, ricorrente negli anni, è stato l’autoritratto, sempre spiazzante e ancora una volta abitato dalla visionarietà fiamminga, sia quando ammiccava al piacere sessuale in maniera esplicita (celebre lo scatto del suo volto con gocce di sperma), sia quando mostrava i segni della malattia e della propria «finitezza».

 

*

Leggi anche La perfezione dell’attesa