La perfezione dell’attesa
Incontri Un'intervista al fotografo olandese Erwin Olaf, a New York con una sua retrospettiva. «Per fare il mio lavoro è necessario innamorarsi del soggetto»
Incontri Un'intervista al fotografo olandese Erwin Olaf, a New York con una sua retrospettiva. «Per fare il mio lavoro è necessario innamorarsi del soggetto»
Erwin Olaf (Hilversum 1959, vive e lavora ad Amsterdam) procede sala dopo sala, fino a quella più interna della galleria newyorkese Hasted Kraeutler che ospita la mostra Waiting: Selection from Erwin Olaf Volume I & II (fino al 28 febbraio). Si ferma davanti alla parete che espone il trittico 50 years, I Wish/I Am/I Will Be (2009). Poi, si gira lentamente verso il giovane fotografo e diventa così il quarto ritratto della serie. Ovvero un momento già passato all’interno di una storia che va avanti. «L’autoritratto, come anche tutto il corpo del mio lavoro, dovrebbe essere visto come un diario – spiega Olaf – Questo trittico, in particolare, nasce dall’aver scoperto nel 1997 di avere un enfisema. Per i primi cinque anni non avevo realizzato di cosa si trattasse, ma poi ho cominciato a capire. Fotografarmi è stato una sorta di terapia. I tubi nel naso significano guardare al futuro e accettare la malattia».
A dare l’avvio al percorso della mostra, concepita come un’ampia retrospettiva che celebra anche la seconda pubblicazione monografica che Aperture dedica al fotografo olandese, è Keyhole 3 (2011), una fotografia a colori in cui una ragazzina è ripresa di spalle, il capo leggermente reclinato in avanti, le mani lungo la schiena che si stringono con forza.
Nella perfezione dell’essenzialità di questa immagine ci sono infinite sfumature: tensioni emotive, parole non dette, mistero, suggestione, intuizione. Sempre in equilibrio tra clamore e silenzio, vuoti e pieni, Erwin Olaf porta la fotografia di moda, e in generale quella commerciale, fuori dagli stereotipi, cogliendo l’occasione per utilizzare – come fa superbamente – la luce, anche per illuminare le paure, i disagi, le repressioni, in uno spazio di tempo che non ha inizio né fine.
Nella costruzione di un’immagine che non descrive un momento del reale, ma è la proiezione delle sue fantasie (consce e inconsce), come si colloca il momento dello scatto e qual è il suo rapporto con il disegno?
Per la maggior parte delle volte parto da un’idea inaspettata, che arriva soprattutto quando sto guardando televisione trash, sono sulla spiaggia o in automobile. Insomma, durante quei momenti zen di assoluto relax. Faccio subito un disegnaccio – sono un pessimo disegnatore – che condivido con le persone con cui lavoro. La grande idea parte da me, ma poi ognuno porta il suo piccolo contributo relativamente a modelli, scenografia, set. Quindi, si procede con il casting. Molte volte ho in mente un certo tipo di modella, magari bionda. Cerco qualcosa di speciale, che però può essere anche la modella dai capelli rossi o il ragazzo transessuale o chiunque altro. Una volta sul set, quando è tutto pronto, aspetto che accada la magia.
La magia è l’innamoramento per il modello. Uno stato che dev’essere ricambiato. Un momento breve in cui mi viene offerto qualcosa di inaspettato, che non mi sarei mai sognato. È allora che si concretizza qualcosa che è vicino al disegno, ma allo stesso tempo anche incredibilmente lontano dall’idea originaria.
Quell’idea, che comporta l’attesa, l’angoscia, la prima lacrima, il momento tra l’azione e la reazione c’è ancora per il 75%, il resto viene fatto con la luce in studio. La luce crea il dramma, la tensione emotiva. Tutto questo viene già studiato durante la costruzione del set. Ci vuole circa un giorno per passare dal disegno al momento in cui inizio a fotografare.
Poi il momento dello scatto è immediato o richiede tempi lunghi?
Nella mia esperienza trentennale di fotografo, quel momento o avviene nei primi tre secondi, oppure alla fine, quando si sa che è l’ultima possibilità. Magari il lavoro non ha funzionato e si decide di staccare, come è successo anche nel mio ultimo progetto, una nuova serie sul nudo classico che ho appena iniziato. Stavo lavorando con due modelli, un ragazzo e una ragazza – le donne sono sempre più rilassate, mentre gli uomini risultano più controllati – il pomeriggio volgeva al termine, lui era molto concentrato su di sé, consapevole della propria bellezza e non si lasciava manipolare.
Poi, avviene qualcosa, click (schiocca le dita, ndr): non so proprio come mi sia venuto in mente, ma gli ho chiesto di baciare il muro. Lui l’ha fatto in una maniera così bella, come se fosse l’amante. In quel momento – alla fine della giornata, in piena stanchezza generale – è avvenuta la magia tra me e lui. Ecco che è scattato l’innamoramento, ho fatto una buona fotografia e lui, finalmente, si è lasciato andare.
I soggetti sono fotografati prevalentemente (anzi fino al 1991 esclusivamente) all’interno di spazi chiusi. Quanto è importante nel ritmo di un racconto che non dichiara esplicitamente, ma sottintende, il rapporto tra il soggetto e l’ambiente che lo circonda?
Il motivo per cui amo la Staged Photography è per via del modo in cui mi permette di liberare completamente la fantasia nel disegnare gli ambienti, il set, ma anche di parlare delle persone. Immaginiamo di avere un set in cui c’è una donna e un vaso con i fiori rosa come quello (indica un vaso con un mazzo di roselline, ndr). Nell’immagine si deve avere la percezione che sia stata la donna a voler comprare quei fiori rosa, non io.
Se ho realizzato una buona fotografia, l’osservatore penserà che quella scelta fa parte della sua personalità, così come ogni altro oggetto: la sedia, il telefono, oppure la distanza tra la sedia e la persona, la tenda e anche il vestito. Anche quando il set è estremamente semplificato, astratto, si deve sentire che quella persona è sempre presente, che quello è sul serio il suo ambiente.
L’elemento comune del suo lavoro fotografico definito sofisticato, provocatorio, sensuale, misterioso è la ricerca della perfezione attraverso l’utilizzo della luce.. Qual è il confine tra tecnica e approccio concettuale?
Procedono tenendosi mano nella mano. Come quando guardo negli occhi delle persone e, se nella fotografia non sono reali come vorrei che fossero, allora mi rendo conto che non funzionerà. Ci sono voluti anni perché imparassi la tecnica, di cui fa parte la luce. All’inizio non ne capivo l’importanza. Amo la fotografia e la natura umana che mi permette di fantasticare e voglio celebrarla in ogni mia immagine.
In ogni periodo – c’è stato quello del ritorno alla fotografia stampata a mano dalla lastra al bromuro d’argento, a quello di Photoshop con Royal Blood, che è la serie più dura e poi il cambiamento cromatico con Grief – tecnica e contenuto, insieme alla forma, hanno camminato insieme. L’avvento di Photoshop è stato incredibile, perché non si tratta solo di creare dei colori bellissimi, ma anche di aggiustarli esattamente come vogliamo, come li immaginiamo. Trovo che questo sia stupefacente.
Anni fa lei ha definito il suo lavoro una combinazione tra estetica e anarchia, un «luogo» dove si conduce una lotta contro le discriminazioni di tutti i generi. La libertà di espressione è un diritto che va salvaguardato da qualsiasi minaccia. Qual è la sua opinione rispetto ai drammatici eventi accaduti ai giornalisti e disegnatori di «Charlie Hebdo»?
È molto preoccupante, perché non si tratta solo di ciò che è successo la scorsa settimana. Nel mio paese, un regista (Theo van Gogh, ndr.) è stato ucciso per strada e, prima ancora, qui a New York c’è stato l’attentato dell’11 settembre, e non si è trattato solo di libertà d’espressione di cui parliamo ora. Sarebbe una bugia se dicessi che non ho paura.
Per me la religione è solo un’opinione. Non ho alcun desiderio che tutte le persone diventino uguali: sarebbe una società molto noiosa. Come nel mio paese, dove gli individui «normali» sono veramente tediosi. Ma voglio difendere con tutto me stesso la libertà d’espressione, di stampa, di essere chi scelgo di essere. Perché quelli che non sono «normali», per scelta o nascita, rappresentano il sale della terra. Ma, allo stesso tempo, sono anche i più vulnerabili, le prime vittime di questo grande conflitto tra civilizzazioni.
Civilizzazioni? Uhm… non lo so, sono tutti civili? È necessario essere consapevoli. Ora si vede anche che gli europei hanno risposte diverse da dieci anni fa, quando il regista van Gogh è stato assassinato da un ragazzo marocchino. In quell’occasione, la nostra regina è andata in un centro di giovani marocchini per solidarietà con la comunità, però alla famiglia del regista ha scritto solo una lettera. Perché non il contrario? Era ovvio che fosse stata mandata dai politici, perché da noi la corona non ha mai avuto potere. C’è stato anche un ministro che avrebbe voluto ridefinire la legge sulla blasfemia. Ma perché? Dio non è stato assassinato, è il regista ad essere stato ucciso! D’altro canto, ritengo che si debba pensare un po’ di più prima di parlare. Come chi – ne ho sentite tante nella mia vita – parla a sproposito dei gay, in strada, nelle fiction televisive, i comici. Questo mi fa veramente arrabbiare.
Bisogna scegliere le parole con più attenzione. Nella nostra società, a volte, siamo troppo grezzi. Ma, ribadisco, dobbiamo difendere il diritto alla libertà d’espressione. La religione, come ho già affermato prima, è solo un’opinione. Se si vuole sostenere il proprio punto di vista, bisogna essere forti abbastanza per accettare anche quello degli altri. Eppure questi sono tempi veramente terribili.
Lei ha firmato importanti campagne pubblicitarie, tra cui Levi’s, Diesel. Heineken, Bottega Veneta. Quali sono per i limiti e le possibilità della fotografia di moda?
Ci sono diversi modi di fare fotografia commerciale: si può essere estremamente liberi tanto quanto limitati. Per la campagna Diesel mi è stato chiesto di essere me stesso: duro, dark, bieco, ironico. Ma altre volte, diciamo pure nella maggior parte dei casi, le idee sono già definite dal committente e si tratta di realizzarle con la propria tecnica. Recentemente, sono stato chiamato da Tomas Maier, direttore creativo di Bottega Veneta, per la loro campagna pubblicitaria. Dopo aver visto il mio lavoro, mi ha detto che voleva che facessi qualcosa da protestante, come lo sono gli olandesi e anche i tedeschi: lui è tedesco.
Anche il suo agente non sapeva esattamente cosa volesse dire, ma dovevo pensare da protestante. Poi ho capito e sono ritornato indietro, ritrovando le mie radici olandesi. Desideravo fare qualcosa di essenziale, ma forte nella composizione e con pochissimi elementi del mio lavoro precedente. Oltre alla luce, naturalmente, lì c’erano le finestre e un’idea di casa, che però non doveva essere esattamente una casa; all’interno ci potevo inserire un pezzo di arredamento. In questo caso il cliente mi ha preso per mano, trasportandomi in una nuova dimensione di libertà e, allo stesso tempo, di limite come lo è la moda.
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