È una coazione a ripetere: dopo ogni incontro ad Ankara tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il primo ministro del governo del Kurdistan iracheno (Krg) Masrour Barzani, le montagne del nord iracheno diventano teatro di un’operazione militare.

Accade di nuovo in questi giorni: al vertice del 15 aprile in cui i due leader hanno riaffermato la cooperazione bilaterale «per promuovere stabilità e sicurezza», dietro le quinte il Krg ha dato luce verde al lancio dell’offensiva militare turca e messo a disposizione i propri uomini, i peshmerga del partito del clan Barzani, il Kdp.

L’OBIETTIVO È IL PKK, il Partito curdo dei lavoratori che nelle montagne nord-irachene ha la base politica e militare e la roccaforte dell’ideologia e della resistenza su cui fanno leva i vari esempi di confederalismo democratico nati dalla teorizzazione del leader prigioniero, Abdullah Ocalan: l’esperienza-embrione del campo di Makhmour, a sud di Erbil; la Siria del nord-est; e Shengal, nel nord-ovest iracheno.

L’ultima volta, appena due mesi e mezzo fa: i primi di febbraio (a pochi giorni dalla fine del tentato assalto dell’Isis alla prigione di Hasakah, nella Siria del nord-est), con «Aquila d’inverno»  la Turchia aveva colpito in contemporanea Makhmour, Rojava e Shengal, ore di bombambardamenti su villaggi e un campo profughi e quasi 30 morti tra forze di autodifesa e civili.

CE LO SPIEGAVA qualche mese fa Zagros Hiwa, portavoce del Kck, l’Unione delle comunità del Kurdistan: «I bombardamenti di Makhmour, del monte Shengal, delle montagne di Qandil sono sintomo di un attacco su larga scala per distruggere il confederalismo democratico. Il potere del Kdp è clanistico, familistico, capitalista. Il confronto è tra dinastia e democrazia, tra autoritarismo e autogestione. Per questo per Barzani il Pkk è minaccia esistenziale».

Questa la ragione dello scarso stupore che si registra in Iraq. Già prima dell’incontro, a Shengal c’era chi dava il 15 aprile come possibile avvio della nuova operazione, visti i precedenti. Che non sono pochi: a «Iraq del Nord» del 1992 sono seguite tra le altre «Acciaio» (1995), «Martello» (1997), «Sole» (2008), «Martire Yalçın» (2015).

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E IERI NEL VILLAGGIO di Dugire, nel distretto di Shengal, l’esercito iracheno ha attaccato una postazione delle Asaysh (le forze di difesa interne dell’Amministrazione autonoma ezida) nel tentativo di assumerne il controllo. Scontro a fuoco poi rientrato (5 feriti tra Asaysh e civili) seppure nelle ore successive i soldati iracheni abbiano circondato altre due postazioni delle Asaysh nei villaggi di Sinone e Khanasur.

Immediata la protesta della gente che si è subito radunata per manifestare fino al ritiro iracheni. Casi che sono il segno – ci spiegano – di un coordinamento degli attacchi che arriva fino in Rojava, con villaggi del distretto di Hasakah presi di mira dai droni turchi di nuovo ieri.

Da maggio 2019 è stata avviata un’unica serie di operazioni, riconoscibili dal nome-ombrello di «Artiglio». Quella iniziata domenica è stata ribattezzata «Claw Lock», il blocco dell’artiglio, appunto.

Stavolta la Turchia ha giocato una carta in più e ai raid con jet e droni – in violazione della sovranità irachena – ha aggiunto la tentata invasione via terra di forze speciali nelle zone di Metina, Zap e Avasin-Basyan (non a Qandil, dunque, quartier generale del Pkk), prendendo di mira – secondo il ministro della difesa turco Akar – «rifugi, depositi di munizioni, reti di tunnel», «tutti distrutti». Secondo Ankara sono stati uccisi «19 terroristi». Dava anche il numero dei propri feriti, appena quattro.

DIVERSA LA VERSIONE del Pkk: l’esercito turco ha colpito cinque villaggi del distretto di Zarghan, mentre i combattenti delle Hpg (le Forze di difesa del Popolo, braccio armato del movimento) hanno ucciso 32 soldati turchi e danneggiato due velivoli nei duri scontri nelle comunità dove i militari sono riusciti ad arrivare grazie al sostegno del Kdp e nelle zone in cui hanno tentato, senza successo, di atterrare con gli elicotteri.

Che un’invasione via terra si concluda con successo è quasi impossibile: le montagne-rifugio del Pkk sono pressoché inespugnabili, coacervo di tunnel e grotte che hanno richiesto anni di preparazione, ben note ai combattenti, quasi per nulla all’esercito turco.

E NEMMENO AI PESHMERGA di Erbil, che hanno preso parte all’operazione. Era successo un paio di volte prima, accade ancora, a riprova del punto di non ritorno raggiunto dalle due entità curde, agli antipodi politici.

Per le Hpg non esiste dubbio sulla collusione tra Barzani ed Erdogan: «Senza la cooperazione del Kdp – hanno scritto in una nota – l’esercito turco non sarebbe stato in grado di attaccare il sud della regione di Zap. Negli ultimi quattro giorni i nostri territori sono stati bombardati 147 volte».

Dietro, secondo il Congresso nazionale del Kurdistan (Knk) sta il tentativo della leadership turca di approfittare dell’immagine di pacificatore nella crisi ucraina «per distrarre dal ruolo distruttivo che Erdogan continua a giocare in Turchia, in Kurdistan e nel resto della regione».

UN’ANALISI SIMILE a quella del partito turco di sinistra, Hdp (che ieri contava decine di arresti tra i suoi membri riuniti per commemorare i 34 morti in piazza del 1° maggio 1977): ieri ha duramente criticato la coalizione di governo accusandola «di resuscitare la guerra per salvarsi, anche al costo di trascinare la Turchia in un disastro. Questi attacchi non risolveranno nessuno dei problemi del paese, economici, politici e sociali, al contrario li aggraveranno».