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Eravamo giovani e non volevamo più mendicare. Ci hanno dato indietro uno Yemen distrutto dalla guerra

Eravamo giovani e non volevamo più mendicare. Ci hanno dato indietro uno Yemen distrutto dalla guerraGiovani yemeniti a Sana'a nel 2011 – Ap

2011-2021. Le primavere arabe Il racconto di un attivista, allora studente universitario, dieci anni dopo le proteste contro Saleh: l'unità del movimento, l'entusiasmo, e poi la repressione, la morte, la paura. E un paese collassato

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 26 gennaio 2021

Ricordare la rivoluzione del 2011 significa tornare a uno dei momenti più esaltanti della mia giovinezza, alcuni mesi in cui abbiamo creduto che l’impossibile fosse diventato possibile e abbiamo assaggiato il senso della libertà.

Per me, che allora ero un giovane universitario, la rivoluzione è stata uno spartiacque tra l’età giovanile e l’età adulta: un’esperienza dalla quale non si torna indietro.

Nel 2011 stavo ancora studiando. La rivoluzione è iniziata proprio accanto l’università: ero molto vicino all’azione perché le prime occupazioni di piazza, i primi sit-in, avvenivano lì. Ogni giorno, quando andavo a lezione, passavo accanto i manifestanti. E mi dicevo: cosa ci fanno qui? Mi sono incuriosito, mi sono avvicinato e ho capito che protestavano per le condizioni economiche.

A quel tempo, il prezzo del pane era molto caro e la quantità era poca. Molti dicevano che il governo di Ali Abdullah Saleh aveva superato ogni limite e che il presidente avrebbe dovuto dimettersi. Ricordo che quando uno dei manifestanti iniziò a gridare «Irhal, irhal» (dimettiti), la reazione fu esponenziale. Del resto, negli stessi giorni accadeva lo stesso in Tunisia, in Egitto.

Come in un effetto domino, anche noi ci ritrovammo a fare la stessa cosa, perché anche noi avevamo un governo corrotto. In quel momento ho capito che dovevo essere parte di tutto questo: in quanto giovane, non avevo la possibilità di sentirmi libero. Prima dell’università sono andato in uno specifico liceo linguistico perché dicevano che era finanziato dal presidente Saleh.

Non era vero ma quel che mi avevano promesso, dopo l’università, è che avrei avuto un lavoro nello stesso istituto, uno stipendio, e ne avevo diritto perché avevo un voto alto di uscita. Non fu così, mi offrirono un lavoro ma lo stipendio copriva a malapena il costo dei trasporti pubblici.

Ero molto arrabbiato, lo ero anche prima perché il presidente non aveva fatto nulla per lo Yemen eccetto chiedere l’aiuto economico da altri Paesi, indebitarsi con essi, sottomettersi a essi, a partire dall’Arabia Saudita. Saleh ha distrutto la nostra reputazione e siamo diventati un Paese di mendicanti.

Ho partecipato alla rivoluzione del 2011, all’inizio, stando lì, in piazza, e guardandomi intorno. Usavamo pregare in mezzo alle proteste e quando accadeva si creava un clima di grande unità. È uno dei ricordi più belli che ho: molti manifestanti avevano bisogno di pregare ma non c’era acqua vicino ai presidi per il lavaggio rituale. Tra di noi c’era un idraulico, è riuscito a costruire dei bagni mobili, così riuscivamo a lavarci prima della preghiera collettiva.

È durata per circa un mese, con mia madre preoccupata: aveva paura che mi accadesse qualcosa o che mi arrestassero. Il peggio è arrivato in quello che noi yemeniti ricordiamo come il Venerdì della Dignità, il 18 marzo, l’unico episodio di morte di massa in città. Un gruppo di aggressori – nel tempo si dirà che erano servizi segreti e sostenitori di Abdullah Saleh – hanno iniziato ad attaccare la piazza dai margini, nella zona della cosiddetta rotonda del Kentucky Chicken, dove c’è il ristorante omonimo.

Io ero lì e stavo ascoltando il sermone della preghiera del venerdì. Appena abbiamo finito di pregare abbiamo sentito dei colpi di arma da fuoco e tutti sono impazziti: le persone correvano dappertutto ma molti manifestanti correvano verso il suono delle esplosioni. Io non potevo farlo. In una frazione di secondo ho dovuto scegliere se diventare un martire della rivoluzione o se preservare la mia vita per rivedere la mia famiglia.

Ho scelto la seconda soluzione, a volte mi sento in colpa per questo. Non è stato facile nemmeno fendere la folla per tornare indietro e salvarmi la pelle.

Tornato a casa ho saputo che in 52 erano morti: mi sono sentito doppiamente in colpa per non essere rimasto nemmeno ad aiutare i feriti. In un’altra occasione sono stato fortunato: mentre marciavamo su strada Marib, una arteria della circonvallazione di Sanaa, degli uomini hanno investito i manifestanti con un pick up e hanno iniziato a sparare con un kalashikov. Ho sentito lo spostamento d’aria, dei proiettili e due uomini accanto a me sono caduti all’istante. È stato davvero tragico.

Quella volta mi sono detto: no, è troppo, lo Yemen deve cambiare. Ed è cambiato, infatti. In questa rivoluzione non ho alcun rimpianto, eccetto che, dopo tre anni, chi voleva far tornare il dittatore gli ha permesso di farsi largo, per poi distruggere con la guerra, definitivamente, la nostra -società.

*attivista

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