Enrico Falqui, il sodalizio notturno con Scipione
A cinquant’anni dalla morte Un ritratto del critico letterario la cui amicizia anni trenta con Gino Bonichi, e con Ungaretti, disegna un Novecento conoscitivo e antiretorico
A cinquant’anni dalla morte Un ritratto del critico letterario la cui amicizia anni trenta con Gino Bonichi, e con Ungaretti, disegna un Novecento conoscitivo e antiretorico
Un’asta del maggio scorso su La collezione Enrico e Antonello Falqui ha riportato l’attenzione su Enrico scrittore e critico letterario, ma anche riaperto il discorso sul come e sul quanto Scipione abbia indirizzato le scelte di Falqui nel campo dell’arte del suo tempo e non solo. La mostra che precedeva l’asta metteva insieme uno spaccato dell’arte del Novecento che aveva al centro trentanove disegni di Scipione e, intorno, i più vicini a questi disegni, i ritratti di Enrico Falqui fatti nel corso degli anni, tra gli altri, da Leonetta Cecchi Pieraccini, Giorgio de Chirico e Franco Gentilini. Gentilini, nel nome di Scipione, non dimenticherà mai Enrico e Gianna, della quale nel 1950 illustrerà anche Cara prigione.
Manca, nel gran numero dei disegni di Scipione – passati, per fortuna, a un solo collezionista, che ha acquisito anche il lotto delle dodici fotografie annotate al verso dall’artista –, il volto di Enrico Falqui del 1929, appena accennato dietro a Il poeta Ungaretti schiacciato tra il cappello, gli occhialetti, il sigaro, e un supponibile Scipione disteso sul tavolo con la faccia coperta da una paglietta dalla larga tesa. È alla fine dell’estate del 1929 quando si incontrano, proprio loro tre, nella Fiaschetteria Beltramme, poi Cesaretto, di via della Croce 39 a Roma, e Scipione, com’era abituale per Bartoli, Maccari e, sporadicamente, de Chirico, utilizza la carta che funge da tovaglia per disegnare. Falqui ha 28 anni, Scipione 24 e Ungaretti 41.
Non è presente neppure il disegno a mezzobusto del 1930, nel quale Scipione ritrae Falqui con giacca e cravatta a pois. A guardarlo bene, diventa, come in una sorta di transfert, frequente nell’arte del Novecento, l’autoritratto dello stesso Scipione, lo sguardo stretto di chi pensa intensamente e affissa un punto lontano, raccolto nella profondità del proprio fantasticare.
Falqui è arrivato alla letteratura in risposta a un bisogno altrettanto esigente quanto quello di Scipione in pittura, ne ha fatto una vera e propria vocazione. Quanto l’uno è osservatore erudito, parlatore attento ma esitante, tanto l’altro è irruente, sarcastico, appassionato, dalla voce sonora pronta a risuonare in quel «guazzabuglio di lingue» che era il Caffè Aragno, dove poteva raccogliere le tensioni comuni di quegli anni e disegnare gli opportunismi, le viltà, le piccole miserie quotidiane, i tic, le manie, le formule, le insofferenze, le ambizioni, gli snobismi, le contraddizioni, la purezza, privilegiando il dettaglio, tra la bizzarria e lo sberleffo, il comico e il provocatorio, ma sottolineando anche lo spessore culturale di diversi personaggi, autentici artefici di conoscenze in seguito divenute possesso stabile della sua esperienza.
L’incontro tra il pittore e lo scrittore è proprio di due nature diverse e simili al tempo stesso, che fanno nascere e crescere un rapporto sulle predilezioni letterarie, sugli ideali romantici, un implacabile amore del lavoro e una disinvolta padronanza del mestiere. Scipione è attratto dal metodo di studio di Falqui, dalle sue letture (Cavalcanti, Michelangelo, Leopardi, Ariosto, Campanella, Campana, Apollinaire), dalle affermazioni lapidarie (Prima dell’uomo salverò meglio l’artista, come il più incorruttibile), dal fatto che nessun aspetto della letteratura gli rimane estraneo. Non a caso, sono entrambi lettori accaniti. In Scipione, la letteratura funge da anticipazione e mediazione nei rapporti con la realtà che la pittura deve restituire ridonandone qualcosa, esprimere delle idee, delle immagini nuove, immagini che hanno bisogno di una forma che né Spadini né la retorica delle vuote gigantomachie e delle sintesi pneumatiche, con quei colori terrosi e bituminosi del Novecento, potevano dare. Infatti, insieme a Mafai, scruta gli accadimenti nei luoghi dove si manifestano, fiuta le lente trasformazioni, anche di natura ideologica, si lascia alle spalle le immagini già sbiadite del formalismo novecentesco della Sarfatti. Da uomo notturno, poi, proprio come Falqui e al contrario della Sarfatti, avendo a fianco una guida come quella di Ungaretti, investiga sul lato fantastico del Barocco che Roberto Longhi e Lionello Venturi vedevano come riflesso dell’inquietudine moderna. La Roma occulta, compendiata negli stucchi di Palazzo Falconieri eseguiti da Francesco Borromini intorno al 1640, con i simboli del Sole, dell’Uroburos, del serpente che si mangia la coda, non era stata visitata proprio con Falqui? Alcune opere del dopo Scipione presenti nell’asta (Pirandello, Vespignani, Longanesi, Maccari, Clerici, Martini, Bartolini, Music) non si portano dietro un alone di mistero?
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Ungaretti tra metafisica e ricerche di luceIn pochi mesi, «il pittore preferito dai poeti», che parla senza timori con Ungaretti e passeggia di notte con Mafai mettendo del fuoco sotto le pietre di Roma, avendo a fianco gli altri due dioscuri, Libero De Libero e Leonardo Sinisgalli, o Giovanni Battista Angioletti, con il quale discute dei Salmi e degli aforismi di San Giovanni della Croce, dell’Apocalisse di San Giovanni e de I canti di Maldoror («dalle parole al segno non c’è che un passo»), di Baudelaire e di Rimbaud, di El Greco, viene introdotto a «L’Italia Letteraria», dove il 14 luglio 1929 appare il primo disegno (una Flagellazione compatta che restituisce il tanto tempo passato sull’arte del Cinquecento e del Seicento e che porta nelle pagine del giornale, fino a poco prima illustrate da Vellani Marchi, Camerini e Apolloni, una ventata di libertà e di invenzione). Subito dopo, eccolo con l’editore Carabba per l’impaginazione delle copertine di Parole all’orecchio e Prologhi viaggi e favole di Cardarelli, Il paese del melodramma di Bruno Barilli, del quale illustra anche La camera n. 13, Vita di Pizzo di Ferro detto Italo Balbo di Malaparte e Falqui, Ossi di seppia di Montale.
Il pittore si è fatto grafico, con gusto, semplicità e cultura. Ha già letto Ebdomero, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1929 e prestatogli da Sinisgalli. Da Ebdomero proviene, infatti, l’atteggiamento di raccogliere la ramificazione delle notazioni poetiche, la loro improvvisa e occasionale apparizione, quel senso metafisico che a volte scatta nell’immagine inquietante. Una immagine che si fa parola e attraversa la temperie culturale dei primi anni trenta, fa della lettera una riflessione a voce alta, una sonda affondata nella contemporaneità, tale da portarlo a lodare o a rimproverare Falqui, dopo la lettura di articoli e libri, dopo la selezione di artisti che non corrispondono a chi, rompendo ogni indugio, cerca nell’uomo la qualità dell’arte e della poesia.
Una riprova è la nascita di «Fronte», diretta da Mazzacurati e Scipione, che Falqui segnala il 28 giugno 1931 sulle pagine de «L’Italia letteraria», sottolineando l’intransigenza nella scelta dei collaboratori (Raimondi, Angioletti, Solmi, Ungaretti, De Benedetti, Piovene, Moravia, Morandi, Mafai, Cardarelli, Savinio, Arturo Martini, Marino Marini, Ernesto De Fiori), impegnati, anche su sue sollecitazioni, a scandagliare le problematiche formali e stilistiche della letteratura e dell’arte. «Fronte», con l’uscita del secondo numero, in ottobre, è già finito, ma, in pieno fascismo, ha dimostrato come sia possibile conservare un preciso campo d’azione riunendo quanto c’è di meglio in Italia nel campo delle arti figurative e della letteratura.
Una conferma è anche l’annuncio, apparso su «L’Italia Letteraria» il 6 dicembre 1931, della collana diretta da Falqui per Giuseppe Carabba in Lanciano, «Disegni italiani contemporanei», nelle sue prime tre serie complete dei nomi degli artisti e dei prefatori: Amerigo Bartoli / Antonio Baldini, Carlo Carrà / Sergio Solmi, Gisberto Ceracchini / Roberto Longhi, Giorgio de Chirico / G. B. Angioletti, Filippo De Pisis / Giovanni Comisso, Mino Maccari / Sandro Volta, Mario Mafai / Eugenio Montale, Arturo Martini / Lionello Venturi, Alfredo Mezio / Enrico Falqui, Cipriano E. Oppo / Emilio Cecchi, Alberto Savinio / Bruno Barilli, Leonetta C. Pieraccini / Sergio Ortolani, Scipione / Giuseppe Ungaretti, Pio Semeghini / Alberto Francini, Gino Severini / Filippo De Pisis, Mario Sironi / Lamberto Vitali, Carlo Socrate / Cipriano E. Oppo, Ardengo Soffici / Corrado Pavolini. Un vero e proprio spaccato del Novecento che fissa, come è stato sempre per Scipione e Falqui, un incontro tra arte e letteratura, eliminando – è Falqui a sottolinearlo – «ogni apparenza o sospetto di Accademia».
Scipione, infatti, non crede più all’assoluto del segno, alla sua insostituibilità, tipica dei formalisti novecenteschi. Si guarda dentro e affida a un mondo diretto, familiare, la soluzione del segno in infinite forme di poesia (basta guardare i manoscritti delle sue poesie). È, dunque, un’autentica opera aperta che si costruisce dinamicamente su se stessa, volendo far corrispondere la concezione della vita con la forma che la esprime.
Le cartelle, con copertine disegnate dagli artisti, dovevano avere un formato di cm 35×25 e la stampa doveva essere su carta usomano Fabriano. La prima uscita doveva essere quella di Scipione con il testo di Ungaretti. Le prove di stampa, conservate da Falqui, con il fondino giallo, erano abbastanza sgradevoli e forse decisero la fine della collana prima ancora di essere nata. Dietro questo aborto, tuttavia, ci sono proprio i disegni di Scipione apparsi su «L’Italia Letteraria», tra il 5 ottobre 1930 e il 15 febbraio 1931, ovvero Amici al caffè (Cecchi, Cardarelli, Socrate, Soffici, Ungaretti, Ruggeri, Longhi, Francalancia, Bartolini, Bruno Barilli), dove si richiama il bel quadro di Bartoli acquistato dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Al vero Surrealismo – Et Voilà (dove sono raffigurati due personaggi di Savinio, un uomo di Dalì e uno Mirò, un manichino e una poltrona di de Chirico, in volo due angeli di Savinio e un cavallo di de Chirico) e, soprattutto, Sensazioni olfattive alla Quadriennale, dove Ferruccio Ferrazzi rimanda all’acido fenico, Virgilio Guidi all’acqua e vino, Sironi alla tintura di jodio, Soffici al sublimato, Spadini all’acqua di lavanda, Casorati al flit, Tosi al gorgonzola, De Pisis al cirio tomato, Bartoli al bromuro.
Le discussioni tra Scipione e il «molto suscettibile» Falqui possiamo solo immaginarle. Iniziate a Roma, continueranno anche dal Sanatorio di Arco, dove il pittore arriva il 13 novembre 1931. Purtroppo di quanto Falqui scrive a Scipione non ci rimane nulla. Il fratello e la madre di Scipione non trovarono ad Arco né lettere né cartoline. Falqui, al contrario, con un affetto e un ordine esemplari, conserverà anche le fotografie, i ritagli di giornale, le buste. Una chiara indicazione della natura dei due personaggi risulta proprio da questo dato oggettivo. Scipione dissipa, Falqui raccoglie. E quanto Falqui abbia raccolto e saputo distribuire traspare dall’esempio più vicino alla morte di Scipione: l’almanacco «Beltempo», uscito tra il 1940 e il 1942 nelle Edizioni della Cometa di Libero De Libero, e dai passaggi di alcuni disegni, contenuti nella cartella lasciatagli da Scipione, nelle collezioni Feroldi, Scheiwiller, Astaldi, Cardazzo, Della Ragione, Mattioli, Masciotta, Jesi, Gualino, Longhi, Barbaroux, Timpanaro, Cecchi, Pratolini.
In una plaquette del 3 giugno 1971 intitolata Il sigillo dell’amicizia ed edita all’insegna di «Romolo nel giardino di Raffaello e della Fornarina», un anonimo (ovvero Gianna Manzini), Libero De Libero, Franco Gentilini, Leonardo Sinisgalli e Romeo Lucchese tessono, con pudore, l’elogio di Enrico Falqui: la sua fedeltà, la sua pazienza, la sua sensibilità, il suo fuoco polemico, il suo fervore nell’alzare i silos della nostra letteratura. Nonostante la presenza di un pittore e di tre poeti che erano anche critici d’arte, è saltato un elemento che rispecchia il modo in cui si mosse e si espresse Scipione: una vita a rassicurante specchio dell’arte, una vita a capofitto. Dove l’arte cammina con la storia.
Proprio come Enrico Falqui che, morto Scipione, si rese conto che il suo amico aveva la forte maestà di fargli guardare tutto coi suoi occhi, di farlo fiutare con le sue narici. Perciò lo spirito di Scipione riempì i suoi giorni, diventò il motore costante del suo interesse per l’arte.
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