Ungaretti tra metafisica e ricerche di luce
Da Tornabuoni Arte, a Firenze, è in scena fino al 7 settembre la mostra Pittura e poesia, dedicata a Ungaretti e l’arte del vedere, a cura di Alexandra Zingone, responsabile anche della ricca monografia pubbliicata dalla galleria insieme alla casa editrice Forma, a cui si aggiunge una plaquette specialmente riferita alla relazione con Piero Dorazio, con cui Ungaretti realizzò una bella cartella a Sankt Gallen nel 1971 dal titolo La Luce, raccolta di poesie dal 1912 al 1961, con tredici litografie. Dopo la bella mostra su Sandro Penna a cura di Roberto Deidier, Tommaso Mozzati e Carla Scagliosi alla Galleria Nazionale dell’Umbria, un’altra occasione per verificare i fili che connettono fortemente scrittura e arte nel Novecento italiano.
L’incontro di Ungaretti con la ricerca nuova delle forme è a Parigi dal 1912, frequentando il luogo per eccellenza magico dell’avanguardia, il Bateau Lavoir, in cui opera Picasso, catalizzatore di un’intera scena. La mostra propone una correlazione tra opere figurative e scritti del poeta, autore di numerosi testi per cataloghi nel corso della sua esistenza. Di Alberto Burri, che gli dedica in omaggio una sua Combustione nel volume Dialogo con Bruna Bianco, edito da Fogola nel 1968, individuava, nel 1963, un elemento profondo dell’agire: «Quando io guardo un quadro di Burri, e vedo che, ritornato dai campi di concentramento nazisti, egli mostra come un bubbone che si vuota la fantasia di quei carnefici, e mostra il sangue e il fuoco che furono il prezzo della libertà, come un’eruzione composta da un disumano cratere, io sento che Burri è profondamente umano».
Profonda era stata in Ungaretti anche la risonanza della stagione metafisica, dove il modo di rappresentare gli oggetti ha un intima correlazione con la sua ricerca poetica. Profondo era stato quindi l’impatto sullo scrittore dell’arte di Giorgio De Chirico, maestro dello spaesamento del quotidiano, luogo principe della meraviglia e dell’orrore. In uno scritto degli anni cinquanta affermava Ungaretti che «nella realtà oggettiva egli vedeva ciò che la superava, ciò che lo sorprendeva e lo toccava umanamente, ciò che, oltreché appagare gli occhi, invitava mente e sentimento a muoversi: ciò ch’egli stesso era uso chiamare da quei giorni metafisico. Per Pitagora, tacita, soprattutto nelle ore paniche, è la sovrana musa delle visioni».
Un altro artista da Ungaretti sentito affine è Carlo Carrà, che nel 1951 firmò un intenso ritratto dello scrittore, oggi al Museo del Novecento a Firenze, su tonalità di marrone interrotte dal lampo di una cravatta blu. Forte anche il legame con Giacomo Balla, con cui condivideva un’ammirazione incontrastata della luce, in ogni sua epifania. In un lungo saggio scritto per una pubblicazione del 1969, poeticamente individuava «scomposizioni della luce in tutte le loro possibilità a probabilità di colore, disintegrazione della luce in colori offerti dagli oggetti osservati, per indurla a potersi riedificare nel medesimo attimo quale integrità di luce, non più nell’abbaglio, via via che il pittore progredisce nei suoi risultati, ma in luce che è rivelazione oggettiva di se stessa, ricomponendosi subitaneamente, fusione improvvisa di quei colori nei quali, per necessità di espressione pittorica, era andata prima scindendosi».
Ungaretti ha dialogato sui temi della creazione dell’opera d’arte anche con Giuseppe Capogrossi e con Mario Schifano. Notevoli le istantanee che lo raffigurano alla ricerca di visioni in mostre personali o alle Biennali di Venezia.
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