E luce fu. L’estetica delle ombre alla Berlinale
Festival Una retrospettiva che racconta l'uso della luce nel cinema americano, inglese e giapponese
Festival Una retrospettiva che racconta l'uso della luce nel cinema americano, inglese e giapponese
Le retrospettive della Berlinale sono sempre frequentatissime e un po’ speciali, perché combinano classici e (ri)scoperte con astuzia culturale e commerciale, ma anche con una progettualità che sembra scomparsa del tutto dai festival italiani. «Le estetiche delle ombre» di quest’anno riguardano l’uso della luce nel cinema tedesco, americano e giapponese. Ed è proprio dal cinema giapponese (che per diversi motivi è anche uno dei meno preservati – solo il 3% dei film degli anni Venti sono sopravvissuti quindi è una delle cinematografie più raramente visibili) che stanno giungendo le sorprese.
Infatti era logico che l’espressionismo tedesco fosse avvantaggiato (tutto esaurito da giorni per la presentazione del restauro de Il gabinetto del dottor Caligari) o che i volti delle star hollywoodiane inondati da uno studiatissimo metodo di illuminazione a tre luci rimangano memorabili (che sia la Garbo con la luce diffusa di William Daniels o Marlene Dietrich fotografata da Lee Garmes in Shanghai Express o persino la star giapponese Sesse Hayakawa nel drammatico The Cheat con la tipica luce Laski) o che il film noir con i suoi notturni inquietanti dimostrasse ineccepibilmente un’estetica delle ombre che fonde etica e stile in un racconto fatalista. Sorprende invece That night’s wife di Ozu (1930) che racconta una storia a sfondo sociale – un giovane padre (che dipinge manifesti di cinema e pubblicità moderniste in russo) rapina maldestramente una banca per poter curare la figlioletta malata e scappa su un’auto guidata da un ispettore di polizia (un ironico attore che aveva lavorato a Hollywood) che lo segue in casa per arrestarlo, ma si lascia commuovere dall’attaccamento disperato dei genitori alla bambina. La fotografia illuminata armoniosamente nello stile del Kabuki, tipica di Ozu, lascia il posto qui a un uso più contrastato e drammatico delle ombre, a esprimere la crisi che fosca si annuncia ma anche il mondo ancora nobile in cui il poliziotto fa il suo dovere senza inutile crudeltà e il padre artista preferisce scontare la sua pena che doversi nascondere- come nel noir quindi le ombre raccontano verità profonde e non sono solo begli effetti espressivi.
Diverso lo stile fotografico del cinema che si ispira ai film «di strada» tedeschi come Crossway (Teinosuke Kinugasa, 1928), ambientato in una antica Edo in cui fratello e sorella condividono una vita di stenti ai margini di una rutilante Yoshivara, e dove l’improvvisa cecità del ragazzo e le lanterne della strada del vizio permettono giochi grafici di luce che ebbero successo allora anche in Germania dove questo fu il primo film giapponese a essere distribuito. Più malinconico e contrastato Humanity and Paper Ballon (Sadao Yamanaka, 1937) una storia in costume (jidaigeki) in cui non si sfoderano le spade ma i samurai spadroneggiano nello slum, che però mantiene i legami di sgangherata comunità.
Dal punto di vista storico ancora più interessante è The war at sea from Haway to Malay (Kajiro Yamamoto, 1942) ovvero Pearl Harbor vista dai giapponesi. Il coraggioso Tomoda diventa pilota della marina e partecipa a (spettacolari) bombardamenti delle basi americane e inglesi alle Hawaii e in Malesia, così efficaci da essere in seguito spacciati per materiali cinegiornalistici. Per fare un confronto diretto viene proposto il classico sulla guerra nel Pacifico, Air Force (Howard Hawks, 1943) stessa guerra, stessa propaganda patriottica ma dall’altra parte, ma stesse luci drammatiche sui volti dei piloti in notturna. Meno sorprendente per chi conosce il suo mitico La stregoneria attraverso i secoli, Blind Justice di Benjamin Christensen (1916) davvero molto sofisticato nell’uso delle luci ora a illuminare dall’esterno le finestre coi decori liberty, attraversate dalla silhouette minacciosa dell’aggressore ora lampade che illuminano un angolo dello schermo, nel buio più totale, e persino un buco della serratura che si trasforma in una sorta di cannocchiale a inquadrare in soggettiva la futura vittima.
La vicenda è piuttosto trita: un uomo ingiustamente accusato di un omicidio fugge nella notte con il suo bambino e chiede aiuto in una villa a una giovane borghese, che però lo tradisce, e quindi egli giura vendetta. Tornerà infatti ma nel frattempo suo figlio è stato adottato dalla famiglia, che lo assiste nella sua morte ed espiazione di colpe mai commesse- un perbenismo borghese che assolve i veri colpevoli ma si tradisce con queste ombre pronte a divorare la luce. La cosa più curiosa però è il precoce approccio metacomunicativo: il film inizia con una bellissima sequenza di un modellino della villa illuminato dall’interno, scoperchiato dal regista come una lanterna magica che si riflette calda sui volti dei due personaggi, per mostrare all’attrice la dislocazione le stanze, o il gioco di aspettative dello strano montaggio di primi piani inclusa la maschera di una scimmietta che si rivela essere uno spettacolo di marionette che i genitori hanno organizzato per la loro piccola.
Luci e ombre a stupire e a svolgere il tema implicito del cinema – ombre elettriche in movimento. Vedere questo percorso internazionale consente di notare gli scambi, le influenze e le peculiarità : i giapponesi restano attaccati alla loro tradizione del Kabuki che diventa l’estetica della grande casa di produzione, tuttora attiva, Shochiku, ovvero luce diffusa frontale e atmosfere armoniose finché le tensioni sociali tra autoritarismo e democrazia non introducono un uso dei contrasti luministici non solo a imitare tedeschi e americani (con Hollywood c’è anche uno scambio di personale) ma anche a rivelare l’umore mutato, mentre gli americani focalizzano le tecniche per dare a ciascun genere la sua luce (tanta nella commedia, contrastata nel dramma e soffocata dall’ombra nel noir) ma persino John Ford, avendo condiviso il set alla Fox con Murnau alle prese con Sunrise in Ombre rosse usa la luce per un western in cui etica e differenza di classe si intrecciano, o per esprimere la cupezza e il contrasto del dramma sociale in Furore.
Ancora più sorprendente risulta Allan Dwan in Iron Mask (1929, il film è stato recentemente restaurato) con un atletico Douglas Fairbanks, che nella seconda parte, per raccontare il tramonto dei moschettieri, utilizzava un’ombra ora inquietante ora malinconica, e metteva in scena il trionfo dei cattivi con gigantesche ombre sulle mura del castello, a rivaleggiare con l’espressionismo in un mondo notturno così insolito per questo regista, giustamente riscoperto in diverse retrospettive.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento