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Duras-Bacon, le macchie dell’apparenza

Duras-Bacon, le macchie dell’apparenzaFrancis Bacon e Marguerite Duras

Dalla «Quinzaine littéraire» del 1971 In occasione di una personale a Parigi, la scrittrice incontrò il pittore per intervistarlo

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 11 gennaio 2020

Il colore è il corpo che si rivolta in tutte le 60 tele che pendono sui muri delle sale all’ultimo piano del Centre Pompidou dove da circa due mesi è inaugurata la retrospettiva Bacon en toutes lettres (fino al 20 gennaio). Bacon e la letteratura: Eschilo, J. Conrad, T.S. Eliot, Bataille, Nietzsche e Leiris i fari che non ha mai smesso di guardare. 48 anni fa è il 1971, mancano pochi giorni al 26 ottobre, data dell’inaugurazione della grande retrospettiva che il Grand Palais dedica a Francis Bacon, dove solo un altro artista aveva esposto da vivo nel 1963, Picasso, in qualche modo il suo idolo. Due giorni prima il 24 ottobre in una camera dell’Hôtel des Saint-Pères Bacon trova morto per un’overdose di alcool e barbiturici il suo compagno George Dyer. La morte ritorna. Quasi dieci anni prima alla veglia dell’inaugurazione della retrospettiva alla Tate Gallery di Londra il suo grande amore Peter Lacy si suicida a Tangeri. La morte ritorna e sempre. Tre giorni prima del 26 ottobre del 1971 a un tavolo sono seduti Marguerite Duras e Francis Bacon per un’intervista che apparirà il 16 novembre su La Quinzaine littéraire. Non so cosa bevono ma non faccio fatica a immaginarlo. L’alcool scorre nelle parole ferme, qualcosa si perde qualcosa rimane. Ci si perde solo per un istante, non completamente. C’è un tempo per la perdita. Il perdersi dura poco perché vorremo tornare rimanere. Se ti perdi per più di tre ore non puoi tornare più indietro.

 

(Bacon) Non disegno. Comincio a fare ogni sorta di macchia. Aspetto ciò che chiamo «l’accidente»: la macchia con cui comincerò il dipinto. La macchia è l’accidente. Ma se ci si attiene solo all’accidente, se crediamo di capire l’accidente, facciamo ancora dell’illustrazione, poiché la macchia somiglia sempre a qualche cosa. Non si può capire l’accidente. Se potessimo capirlo, capiremmo anche il modo con cui agiamo. Invece questo modo con cui agiamo, è l’imprevisto, non possiamo mai capirlo: È fondamentalmente l’immaginazione tecnica: «l’immaginazione tecnica». A lungo ho cercato il nome per chiamare questo modo imprevedibile con cui agiamo. Non ho mai trovato che queste parole: immaginazione tecnica.
Vede, il soggetto è sempre lo stesso. È il cambiamento dell’immaginazione tecnica che può far passare il soggetto al sistema nervoso personale.
Immaginare delle scene straordinarie, non è affatto interessante dal punto di vista della pittura, questa non è l’immaginazione. L’immaginazione verbale è costruita dall’immaginazione tecnica. Il resto è immaginazione immaginaria, che non ci porta da nessuna parte.
Non posso leggere Sade per questa ragione. Non mi disgusta completamente ma mi annoia. Come non posso leggere alcuni scrittori mondialmente riconosciuti. Scrivono delle storie sensazionali, e basta. Ma non hanno sensazione tecnica. Le vere aperture le troviamo solo grazie ai tecnici. L’immaginazione tecnica, è l’istinto che lavora fuori della legge per restituire il soggetto al sistema nervoso con la forza della natura. Ci sono molti giovani pittori che scavano la terra, la prendono e in seguito espongono questa terra nelle gallerie. Tutto ciò è stupido e prova la mancanza d’immaginazione tecnica. È interessante che abbiano il desiderio di cambiare il soggetto a tal punto che arrivano a questo: afferrare un pezzo di terra e metterlo su una base. Ma quello che ci vorrebbe, è che la forza con cui strappano la terra si «rivoltasse». Che il pezzo di terra sia strappato, sì, ma che sia strappato dal loro sistema personale e fatto con la loro immaginazione tecnica.

(Duras) La nozione di progresso nella pittura è una falsa nozione?
(Bacon) È una falsa nozione. Prenda la pittura paleolitica del nord della Spagna – non mi ricordo il nome della grotta. Troviamo là, nelle figure, dei movimenti che non sono mai stati meglio colti. Il futurismo è tutto lì. È la stenografia perfetta del movimento.

Anche la nozione del progresso personale è falsa?
Meno falsa. Lavoriamo su noi stessi per costringerci a scuoiare le cose sempre in modo più acuto.

Il pericolo, cos’è?
La sistematizzazione. E la credenza dell’importanza del soggetto. Il soggetto non ha nessuna importanza. Il talento può regredire, scomparire. Le eccezioni nella Storia sono Michelangelo, Tiziano, Velázquez, Goya, Rembrandt: mai un regresso.

Come progrediamo?
Lavorando. Lavora crea lavoro. È d’accordo?

No. Ci vuole un inizio. Altrimenti è inutile lavorare. Quando leggo alcuni libri, trovo che scrivere in un certo modo è ancora meno scrivere che non scrivere affatto. Che leggere in un certo modo è ancora meno leggere che non leggere affatto, ecc.
Con la pittura è lo stesso. Ma non si sa mai con l’immaginazione tecnica, un giorno può dormire e un altro risvegliarsi. L’importante è che ci sia.

Torniamo alle macchie di colore.
Sì, spero sempre che arrivi una macchia su cui costruire «l’apparenza».

Comincia sempre con le macchie?
Quasi sempre. Loro sono «gli avvenimenti che accadono», ma che accadono attraverso me, attraverso il mio sistema nervoso che è stato creato nel momento della mia concezione.

La «felicità di dipingere» è anch’essa una nozione stupida come quella della «felicità di scrivere»?
Tanto stupida.

Si sente in pericolo di morte quando dipinge?
Divento molto nervoso. Sa, Ingres, piangeva per delle ore prima di cominciare un dipinto. Soprattutto un ritratto.

Goya è soprannaturale?
Forse no. Ma è favoloso. Ha combinato le forme con l’aria. Sembra che le sue pitture siano state fatte con la materia dell’aria. È straordinario, favoloso. Il più grande Goya per me si trova a Castres, La giunta delle Filippine.

La pittura nel mondo, a che punto è?
In un punto molto brutto. Poiché il soggetto era così difficile abbiamo cominciato con l’astratto. E logicamente questo sembrava fosse il modo in cui doveva andare la pittura. Ma come nell’arte astratta si può fare qualunque cosa, si arriva semplicemente alla decorazione, allora sembra che il soggetto ridiventi necessario perché solo il soggetto fa lavorare tutti gli istinti e cercare e trovare i modi per esprimerlo. Vede, ritorniamo alla tecnica.

Non ha mai dipinto prima dei trent’anni?
No, prima ero un drifter, come lo tradurrebbe?

Marginale.
Ho sempre osservato la pittura. E a un certo momento mi sono detto: forse anch’io. Ho impiegato quindici anni per cercare di arrivare a qualcosa. Ho cominciato a fare qualcosa a quarantacinque. La chance che ho avuto è di non aver imparato a dipingere con dei professori.

La critica nei confronti del suo lavoro?
È stata sempre contro di me. «Sempre» e «tutti». Da qualche tempo c’è qualcuno che dice che sono un genio, e altre cose come queste, ma questo conta poco. Sarò morto prima di sapere chi sono perché per saperlo è necessario che passi del tempo. È solo attraverso il tempo che possiamo riconoscere il nostro valore.

Abbiamo spesso parlato dell’ «accidente».
Non posso definirlo. Possiamo parlarci intorno. Nelle lettere, lo stesso Van Gogh non ha fatto altro che parlare «intorno alla pittura». I suoi «tocchi», alla fine della sua vita, la forza dei suoi «tocchi» non rivelano nessuna spiegazione.

Provare; dall’interno.
Ecco, se prendessimo della materia e la gettassimo contro un muro o su una tela troveremmo subito i tratti del personaggio che vorremmo vedere. Questo accadrebbe senza volontà. Arriveremmo a uno stato immediato del personaggio e questo al di fuori dell’illustrazione del soggetto. Quando gli imbianchini che ridipingono gli appartamenti fanno della macchie sul muro prima di cominciare il loro lavoro, si tratta dello stesso modo di ottenere uno stato immediato della materia. Gli espressionisti astratti americani hanno provato a dipingere in questo modo, soltanto con la forza della materia. Non è abbastanza. È ancora decorazione. La forza non deve essere, non è nella forza di gettare la materia. La forza dev’essere totalmente congelata nel soggetto. La materia gettata sul muro, potrebbe essere l’accidente, capisce. Ciò che arriva dopo è l’immaginazione tecnica.

Duchamp?
Lui ha rovinato la pittura americana per cent’anni. Tutto viene da lui, e tutti. Ciò che è curioso, molto curioso, è che faceva la pittura più estetica del XX secolo. Ma il suo tocco era così sicuro, e la sua intelligenza talmente sicura.

L’accidente, possiamo chiamarlo anche chance, caso?
Sì, queste parole sono tutte la stesse.

Qual è il momento privilegiato, come definirlo?
Quando i «muscoli» lavorano bene. Allora le macchie sembrano avere più senso, più forza.

Tutto è concreto.
Tutto. Non capisco i miei quadri più degli altri. Li vedo come delle valvole della mia immaginazione tecnica a differenti livelli. Nessuno capisce quello che c’è di nuovo in un quadro. Non c’è nessuno al quale mostrare un quadro e che sia suscettibile di vedere ciò che vi è di nuovo in questo quadro.

Lei dice di non capire eppure i suoi quadri scoppiano d’intelligenza.
È possibile questo?

Lo credo, ho conosciuto una bambina che diceva: che cos’è la calura quando non c’è nessuno che ha caldo? Le chiedo: che cos’è l’intelligenza quando il pensiero ne è assente. Che cos’è l’intelligenza quando nessuno prova o usa questa intelligenza per scopi critici, di giudizio, ecc. Non siamo così vicini a ciò che lei chiama istinto?
Sono d’accordo. Vorrei fare dei ritratti e tutte le mie altre pitture con lo stesso choc che si riceve nella vita davanti alla «natura».

E per questo crede al lavoro nell’imbecillità?
Assolutamente, completamente. A volte il senso critico arriva, il quadro diventa visibile per un istante, poi riparte.

Quando lavora?
Il mattino, con la luce. Il pomeriggio, vado nei bar o nelle sale da gioco. A volte vado da amici. Per lavorare devo essere assolutamente solo. Nessuno in casa. Il mio istinto non può lavorare con gli altri intorno – e quando li amiamo è peggio – bisogna lavorare soltanto in libertà.

(traduzione di Domenico Brancale)

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