Visioni

Dramma industriale. A lieto fine ma non troppo

Dramma industriale. A lieto fine ma non troppoScena da «Dramma industriale (Firenze 1953)»

A teatro In scena a San Miniato uno spettacolo sulla figura di La Pira ma che si allarga alla storia recente

Pubblicato circa un anno faEdizione del 29 luglio 2023

Difficilmente negli spettacoli «estivi» (e soprattutto di questi tempi) si può provare un benefico shock perché dal palcoscenico si parla di cose che ci informino e ci coinvolgano, magari con forza, parlando della nostra vita collettiva. È successo invece all’edizione annuale della Festa del Teatro di San Miniato, una manifestazione nata esattamente 70 anni fa, che per molto tempo ha incentrato la propria ricerca (su testi ogni volta scritti appositamente) attorno a temi religiosi o devozionali, anche se affrontati attraverso ambientazioni e situazioni «laiche». Già da qualche anno però si è innescata, anche nello splendido scenario antico del borgo, una maggiore e vivace attenzione ad una religiosità più vicina e sensibile alla realtà sociale di oggi. Una sorta di «segnale» è stato rappresentato dal bello spettacolo su Don Milani e la sua esperienza. E il discorso si è via via allargato a temi sociali e morali della nostra storia recente, dentro e fuori d’Italia.

QUEST’ANNO con il titolo Dramma industriale (Firenze 1953), mentre si ripercorre quella stagione politica e sociale, vengono veramente i brividi pensando che a pochi chilometri di distanza, ancora oggi le cose vanno molto peggio e restano senza via d’uscita, come il caso della Gkn insegna. Il racconto teatrale è quello di una fabbrica che viene chiusa dalla proprietà provocando lo sciopero a oltranza degli operai. Quella che lo spettacolo racconta è la crisi dell’allora sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, democristiano ma dotato di una particolare sensibilità sociale. È lui a sua volta a chiedere lumi e consigli al suo referente romano nel partito (il capocorrente diremmo oggi), Amintore Fanfani. Le motivazioni davvero evangeliche che spingono il sindaco a sentirsi pienamente parte di quegli operai, sono aggirate (di fatto strumentalizzate) dalla «paura del comunismo» agitata da Roma come una clava.
Il testo di Riccardo Favaro e la regia di Giovanni Ortoleva non cedono a facili ammicchi o ironie

DI LA PIRA lo spettacolo dà un ritratto affascinante: da una parte può apparire in delirio con le ragioni della sua fede, ma dall’altra coinvolge tutti proprio quella fede che lo porta a farsi carico delle persone che si ribellano allo sfruttamento senza limite della fabbrica. Allo spettatore viene spontaneo, oltre al pensiero per la vicina Kgn di Campi Bisenzio, pure seguire i percorsi, che dalle chiacchiere si fanno politici, mettendo alla prova anche i sentimenti della fede, oltre che della convivenza. Sono solo 5 gli interpreti, ma pronti a scambiarsi i ruoli e i pensieri. Quattro uomini e una donna, che nella loro mobilità, di ruolo e di racconto, rendono tangibile la complessità di ogni posizione venga assunta. Dagli attori, e dai manichini anonimi che dal soffitto si affacciano, su quella tavolata dove si giocano i principi fondamentali della convivenza. E anche della fede di ciascuno. Fede in Dio, come nel progresso, nella giustizia sociale, nella convivenza.

SEMBRANO parole grosse, ma non ci si deve spaventare: lo spettacolo ha una fluidità che lo porta leggero e pensoso in avanti. Il testo di Riccardo Favaro e la regia di Giovanni Ortoleva (entrambi men che trentenni) non cedono a facili ammicchi o ironie, anche se non mancano momenti di vero divertimento. Grazie anche agli attori, a cominciare da Christian La Rosa (La Pira) e Edoardo Sorgente (Fanfani), capaci entrambi di non solleticare facili adesioni o antipatie. Stefania Medri, unica interprete femminile, è particolarmente duttile nel trasformarsi e farsi portavoce di tanti interrogativi. Stefano Braschi è il ragioniere padrone dell’azienda che vuole chiudere, mentre Marco Cacciola imbraccia la fattiva industriosità di Enrico Mattei, che risolse la situazione facendo acquistare, dall’Eni che presiedeva, la fabbrica che sarebbe divenuta la Nuovo Pignone. Sono quasi commoventi, mentre si scrutano i manichini calati sulla scena dal cielo, le parole di Mattei, padrone «illuminato», che con molta consapevolezza fanno eco a quelle trasformazioni. Ed è impossibile non rintracciarvi lo spirito, e i termini stessi, di Pasolini davanti ai nuovi assetti della società italiana.

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