Dopo essere rimasta per decenni in posizione subordinata rispetto al cinema, che ha portato il genere alla massima maturità espressiva, la letteratura western ha conosciuto una vera e propria età dell’oro a partire dagli anni Settanta, con una serie di romanzi di grandissima qualità e potenza culminati in Lonesome Dove, di Larry McMurtry, e Meridiano di sangue, di Cormac McCarthy. Con il genere si sono confrontati diversi altri autori di grande spessore, come John Williams – che quasi tutti ricordano solo per il clamoroso successo postumo di Stoner, ma che ha contribuito alla rinascita del western con un piccolo capolavoro come Butcher Crossing –, E.L. Doctorow (Tempo di uccidere) e Joe Lansdale (Paradise Sky), mentre sono rimasti per molto tempo nel dimenticatoio i loro predecessori, che ai maestri del genere, primo fra tutti John Ford, avevano fornito materiale spesso di prim’ordine. È questo il caso di Dorothy Marie Johnson, narratrice e saggista, profonda conoscitrice della frontiera americana e del suo folklore, nata in Iowa ma cresciuta nello stesso Montana celebrato in alcuni romanzi di McMurtry.

A portarla all’attenzione dei lettori italiani è ora l’editore Mattioli 1885, tra i più attivi nella promozione della letteratura americana, tanto classica quanto contemporanea, che ha raccolto in un unico volume quattro testi, tre dei quali oggetto di altrettante, celebri trasposizioni cinematografiche. Nel volume titolato  L’uomo che uccise Liberty Valance (traduzione eccellente di Nicola Manuppelli, pp.186, € 17,00) oltre al racconto che dà il titolo al libro, portato sul grande schermo da John Ford, c’è spazio per «Un uomo chiamato cavallo», dal quale è stato tratto l’omonimo film di Elliot Silverstein, tra i capisaldi del cosiddetto «western revisionista», e per il romanzo breve «L’albero degli impiccati», adattato per il cinema da Delmer Daves, con Gary Cooper nel ruolo del protagonista. Completa la raccolta il racconto forse più bello di Johnson: «Una sorella scomparsa», la storia del difficile ritorno a casa di Bessie, rapita dagli indiani quando era poco più di una bambina e ormai membro a tutti gli effetti della tribù dalla quale è stata prelevata, al punto di subire la presunta liberazione come un tragico imprigionamento, e preferirle la fuga.

Paragonando i testi di Johnson alle loro versioni per il grande schermo si coglie, quasi all’istante, la differenza tra una letteratura che, libera dalla ricerca del consenso popolare, insegue la complessità dei personaggi e i loro dilemmi etici, e un cinema profondamente condizionato dal sistema produttivo hollywoodiano, dal divismo spesso granitico dei grandi attori (oltre a Gary Cooper, John Wayne e James Stewart nell’Uomo che uccise Liberty Valance), e dalla volontà di perpetrare il mito della frontiera anche quando se ne racconta il crepuscolo o se ne correggono alcuni presupposti nel nome del politicamente corretto (come in Un uomo chiamato cavallo, che insieme a Soldato blu e Piccolo grande uomo avvia quel processo di sacralizzazione dei nativi e della loro saggezza culminato, anni dopo, in Balla coi lupi). Se Johnson sfugge quasi per intero a queste forme di idealizzazione del West americano è grazie alla finezza con la quale tratteggia, facendo ampio ricorso al chiaroscuro, i suoi protagonisti. Il Ransome Foster dell’«Uomo che uccise Liberty Valance» è vanesio, vendicativo, ambizioso, e ha ben poco a che spartire con la goffa nobiltà d’animo che contraddistingue la versione offertane da James Stewart; il protagonista senza nome dell’ «Uomo chiamato cavallo» nutre sentimenti ambivalenti nei confronti della tribù che lo ha rapito, con punte di odio e di razzismo forsennato; Doc Frail, il motore narrativo dell’ «Albero degli impiccati», è così condizionato dal suo passato, e da una profezia di morte che lo accompagna sin dai giorni della gioventù, da non trovare la forza di amare la giovane donna che, scampata a una rapina nella quale ha perso il padre, ha improvvisamente invaso la sua vita.