Donna Summer, le metamorfosi di una «ordinary girl»
Raccolte Pubblicato di recente un cofanetto che racchiude i sette album incisi dalla diva di Boston tra il 1980 e il 1991. Versioni rimasterizzate con l'aggiunta di b side e remix
Raccolte Pubblicato di recente un cofanetto che racchiude i sette album incisi dalla diva di Boston tra il 1980 e il 1991. Versioni rimasterizzate con l'aggiunta di b side e remix
La disco non era solo nei 4/4 della batteria, era uno stile, una moda e un modello di vita da seguire. Donna Summer dagli orgasmi multipli di Love to Love You Baby che la incoronò regina incontrastata del genere dal 1975 fino al tramonto della «febbre del sabato sera», fece molto di più. Seppe mutar pelle e mantenere anche negli Ottanta un ruolo di assoluta preminenza nel campo della pop music, dimostrando da The Wanderer (1980) – l’ultimo album insieme a Giorgio Moroder e Pete Bellotte – a Mistaken Identity (1991), di sapersi muovere fra generi, produttori e musicisti risultando sempre – anche nei progetti non pienamente riusciti – credibile. Per chi volesse andare oltre l’immagine della disco queen con almeno una dozzina di hit incise fra il 1975 e il 1979 da I Feel Love a Hot Stuff, passando per Last Dance al duetto fra dive con Barbra Streisand su No More Tears, la Crimsen Production – su licenza della Driven by the Music, ossia le edizioni musicali della cantante scomparsa il 17 maggio 2012 ora curate dal marito Bruce Sudano e dalle tre figlie, ha ristampato singolarmente e in un cofanetto, Donna, sette album incisi dal 1980 al 1991 – il periodo Warner e Geffen – completamente rimasterizzati e con l’aggiunta di b-side e, per i cultori del genere, di una lunga serie di remix.Donna ha carisma anche fuori dal dancefloor grazie a una voce potente e dalla notevole estensione, in basso e in alto, in pochi però se ne accorgono all’inizio. «Colpa» di Moroder che agli esordi e per diversi long playing (…siamo nei Settanta) la costringe nel suo celebre falsetto, ma da Last Dance – canzone premio Oscar 1978 per il film Thank God it’s Friday – in poi è tutta un’altra musica… E, non va poi dimenticato, la cantante di Boston cresce con il gospel ma il suo esordio a 17 anni è in una rock band della sua città, i Crow, un dettaglio non trascurabile.
È quindi con la consapevolezza dei suoi mezzi vocali che Donna apre gli Ottanta con The Wanderer, un banco di prova impegnativo perché il disco arriva dopo il successo planetario dei due doppi Bad Girls e dell’antologico On the Radio. Ma è il canto del cigno della disco, il punk come un ciclone travolge tutto e tutti e la new wave riporta in auge il rock. Donna al suo esordio con la Geffen – dopo lo strascico legale che la porta a citare in tribunale per 10 milioni di dollari il suo storico discografico della Casablanca Neil Bogart: «Tutti mi dicevano che la Casablanca mi stava truffando – rivela nella sua autobiografia Ordinary Girl (2004) -. Ma me ne accorsi molto tempo più tardi» – volente o nolente deve cambiare. Si interrompe la sequenza dei doppi album a tema, Moroder e Bellotte provano a misurarsi su nuovi terreni, come l’altoatesino previdente aveva già sperimentato con le colonne sonore di American Gigolo e la produzione di altri artisti. L’elettronica si mescola al rock’n’roll e Donna con The Wanderer spiazza critica e fan: qui rock, pop, new wave si fondono con elementi dance. E in più, Donna gioca con la voce come mai aveva fatto prima: per il pezzo che apre la raccolta abbassa la tonalità così da evocare un suo mito, Elvis Presley, in Lookin’ up sale di ottave: «Era una sua caratteristica – racconta Harold Faltemyer nelle note che accompagnano l’edizione rimasterizzata – saliva a tonalità impensabili ma sapeva anche creare un’atmosfera intima per ballate più soffuse».
Per il disco successivo Pete Giorgio e Donna si spingono oltre, si torna al formato doppio: I’m a Rainbow – sono un arcobaleno – è titolo quanto mai pertinente: la ex disco diva osa persino cimentarsi in una versione di Don’t Cry for Me Argentina e in una ballata – To Turn the Stone – dal respiro epico e con tanto di cornamuse iniziali. Geffen è sconvolto, teme il flop e non solo blocca la pubblicazione, ma decide che il secondo lavoro di Donna per la nuova label la vedrà impegnata con Quincy Jones, «licenziando» di fatto Moroder e Bellotte. I’m a Rainbow resterà chiuso in un cassetto fino al 1996, quando la Polygram decide di pubblicarlo anche se nel tempo molte canzoni verranno inserite in alcune colonne sonore (Romeo in Flashdance) o affidate a altri interpreti. Aggiunto al cofanetto, I’m a Raibow viene per la prima volta stampato in formato album.
Non sarà un lavoro semplice da realizzare ma nell’agosto 1982 Donna Summer vede finalmente la luce. Scintille volano negli studi losangelini dove l’album prende corpo, Donna delusa dalla bocciatura di I’m a Rainbow durante le sedute di registrazione è in attesa della terza figlia e quindi limita il suo apporto solo al canto. Così Jones sulle nove canzoni ne «approfitta» per sperimentare sonorità e atmosfere su cui in parallelo sta lavorando per il disco con Michael Jackson, Thriller. Donna non sempre è convinta delle scelte di Quincy che la spinge duramente a ripetere passaggi fino allo sfinimento, ma alla fine ne esce quello che probabilmente è il suo capolavoro. Funziona tutto: dal funk dell’iniziale Love is Control, alla ballata Mystery of Love di Rod Temperton passando per il rock’n’roll di Protection scritto e suonato da Bruce Springsteen, toccando il vertice nella performance vocale su State of Independence di Vangelis e Ian Anderson (nella nuova emissione oltre a una b-side Sometimes Like a Butterfly sono presenti tre remix).
Gatti senza artigli, Cats without Claws (1984), titolo del terzo album rilasciato per l’etichetta del tycoon americano, suona quasi come un sinistro presagio. Perché appena un anno prima Donna aveva dato alle stampe il fortunatissimo She Works Hard for the Money, ma per i tipi della Polygram che nel frattempo aveva inglobato la Casablanca (è la ragione per cui l’album non è presente nel cofanetto rimasterizzato), a cui deve, così come da transazione legale dopo la brusca separazione con Bogart e l’etichetta losangelina, un altro disco. Donna ci riprova con lo stesso team – Michael Omartian in fase produttiva – e un pugno di canzoni che spaziano dalla electro al pop, dal funk alla ballata. Forse ancora migliori del precedente come Supernatural Love – video molto kitsch con una Donna quasi anoressica – in puro pop anni Ottanta. Introdotta da un solo di batteria di Michael Baird, ha una melodia irresistibile ma curiosamente la Geffen le preferisce come singolo di lancio la cover di There Goes My Baby, hit anni Sessanta dei Drifters forse ripensando ai fasti commerciali che sei anni prima la portarono ai vertici delle charts di Billboard con il rifacimento di Mac Arthur Park.
Donna e la Geffen, un rapporto difficile: dopo l’esito non fortunato di Cats without Claws, passano tre anni prima che un nuovo progetto discografico faccia capolino nei negozi e sarà anche l’ultimo con la label americana. All Systems Go (1987) sempre più distante dalle atmosfere dance, è un disco interlocutorio che alterna pezzi di notevole scrittura (Dinner with Gershwin firmato da Brenda Russell, Fascination, Thinkin about My Baby) a inspiegabili cadute di tono (Love Shock, Bad Reputation). Gli Ottanta di Donna sono però destinati a chiudersi in maniera trionfale e inaspettata: lasciata la Geffen Donna accetta il suggerimento del marito Bruce Sudano di mettersi al lavoro con il team Stock, Aitken e Waterman autori di una pop dance dai toni leggerissimi ma dai successi clamorosi, affidata alle voci fra gli altri di Rick Astley e una giovanissima Kylie Minogue. Interamente registrato a Londra Another Place and Time (1989) nasce senza avere un’etichetta che lo distribuisca, ma basta solo che la prima traccia, This Time I know it’s for Real, venga diffusa nei dance club e nelle radio che, come ricorda la stessa Donna: «Tutte le case discografiche mi chiamarono per pubblicarlo». Alla fine è la Warner a spuntarla per l’Europa e l’Atlantic per gli Stati Uniti. Sarà l’ultima hit mondiale della cantante: dieci tracce leggerissime che suonano come un omaggio alla scena disco dei Settanta, con la voce di Donna a nobilitarle. Un successo enorme anche nei club, come testimoniano i due cd contenenti i remix dei quattro singoli estratti aggiunti nella nuova confezione.
Ma per la diva di Boston sono una fase di passaggio, Mistaken Identity (1991) che completa il cofanetto è un ulteriore salto in avanti alla ricerca di ulteriori stimoli. Prodotto da Keith Diamond è l’album dalle atmosfere decisamente più black mai affrontate da Donna, dove spiccano Get Ethnic, Work that Magic, When Love Cries – con un inciso rap – e un superbo gospel di chiusura come Let There Be Peace. Spiazzante e quindi incompreso, si rivela un tonfo commerciale tanto che nei diciassette anni successivi fino a Crayons (2008) l’ultimo album prima della morte, Donna si concentrerà soprattutto sull’attività live alternandola con la pubblicazione di materiali antologici e sporadici inediti.
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