Cultura

Djamila Ribeiro, la mia storia evoca quella delle donne nere in Brasile

Djamila Ribeiro, la mia storia evoca quella delle donne nere in BrasileCandomblé, studio per un murales (Djanira da Mota e Silva)

Incontri Un’intervista con la filosofa e attivista a partire dal suo ultimo libro «Lettere a mia nonna», edito da Capovolte. «Guardando alla prospettiva di non riconoscimento e precarizzazione, mia madre si vedeva in una situazione di schiavitù. Quando analizziamo le prospettive indicate da altri riferimenti, come il candomblé, capiamo però che la casa può anche essere un posto di potere»

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 16 maggio 2024

L’ultimo libro di Djamila Ribeiro, edito da Capovolte e tradotto da Alessia Di Eugenio e Nicola Biasio, si intitola Lettere a mia nonna (pp. 192, euro 15) e in Brasile ha riscosso un grande successo. La nonna in questione è quella della filosofa brasiliana e si chiama Antônia, raffigurata in una fotografia che anticipa le suddette lettere e cara dedicataria dei pensieri e dei ricordi della nipote.
Come specificano Francesca De Rosa e gli stessi traduttori nella postfazione all’opera, la fotografia ci mostra Antônia con indosso gli abiti tipici del candomblé, religione afro-brasiliana strettamente legata alla storia della schiavitù nelle piantagioni del nord del paese.
In questo libro, come in tutti quelli finora pubblicati da Djamila Ribeiro, la schiavitù e il razzismo si esibiscono con il loro portato devastatore ma in questo testo – più che negli altri – la filosofa ce li squaderna passando anche dalle proprie memorie familiari, che hanno come protagonista la nonna defunta, la cui presenza immateriale continua ad accompagnare l’autrice.
La complicità con lei permette a Djamila Ribeiro di evocare la storia della sua militanza femminista, antirazzista e decoloniale, di come si è inscritta nel tessuto brasiliano dagli anni 90 fino ai giorni nostri. Il dialogo con lei, la relazione, le consentono di raccontarci lo statuto «d’umanità» delle donne nere, usato e abusato a profitto del potere e della propaganda: «Restituire umanità significa anche assumere fragilità e dolori propri della condizione umana. Siamo rese subalterne o siamo dee. Io chiedo: quando saremo umane?».
Tramite questo epistolario Djamila Ribeiro cuce e ricuce i bandoli della sua genealogia, dalla madre morta troppo presto fino alla giovane figlia, per ritornare sempre alla nonna Antônia, la cui voce rimemorata diviene voce collettiva delle donne amefricanas.

Djamila Ribeiro

Il suo libro è costruito come una serie di lettere indirizzate a sua nonna, ripercorrendo il vostro passato comune ma anche alcuni momenti vissuti esclusivamente da lei in quanto soggetto – che tuttavia sono una rappresentazione di quanto vissuto da una generazione e da un gruppo sociale e razziale. Quanto l’esperienza individuale può rispecchiare quella collettiva?
L’esperienza individuale non può che essere un’esperienza collettiva quando parliamo di donne nere, perché attraversiamo situazioni simili. Non c’è da stupirsi che il libro abbia avuto molto successo in Brasile perché l’identificazione con le storie che racconto è stata facile. Visto che il razzismo e il sessismo sono strutture storiche, finiscono per generare un modello di esperienze che noi, come donne nere, ben conosciamo proprio per il fatto di appartenere a questo gruppo. Ecco perché la mia storia è anche quella delle donne nere in Brasile. D’altra parte, è evidente che la soggettività si traduce in un percorso individuale, nel senso che io, Djamila come persona a sé, e noi come donne nere, abbiamo bisogno di rivendicare il diritto alla soggettività, alla nostra individualità, dal momento in cui siamo state collocate negli stereotipi, in una logica coloniale di omogeneizzazione che tende a rappresentarci come se fossimo tutte uguali. In questo senso, per quanto la mia storia rifletta quelle delle altre, appartiene a Djamila, la figlia di Dona Erani e di Seu Joaquim, nipote di Dona Antônia, che ha fatto esperienze differenti. È questa la relazione dialettica che bisogna mantenere.

In una delle epistole racconta a sua nonna del momento di abbraccio collettivo di cui ha fatto esperienza durante il carnevale del 2020 a Rio de Janeiro. Cosa rappresenta per lei la partecipazione a quell’evento (che in Brasile è denso di significati anche discordanti), cosa l’abbraccio di quelle donne grazie a cui si è «sentita ricollegata a un’ancestralità perduta»?
A casa sono cresciuta in questa cultura, perché mio padre ascoltava i dischi di samba, ho imparato a ballare il samba tra le mura di casa con mia madre e mio padre alle feste di famiglia, tutto ciò ha sempre fatto parte della mia vita. Tuttavia, mio padre aveva una visione molto critica sul fatto che io e mia sorella frequentassimo le scuole di samba. Ci ha proibito di frequentarle perché credeva che fosse un destino che veniva imposto a donne come noi e lui voleva che avessimo un futuro diverso, per quanto ne apprezzasse la cultura, guardasse in televisione le sfilate della scuola di samba e gli piacesse quel mondo. Era uno spazio molto sessualizzato per queste donne. Sono cresciuta in questa dicotomia secondo cui o studi o ti piace il carnevale. Così, man mano che crescevo e maturavo, ho iniziato a capire che questa dicotomia non doveva esistere, che si può andare al carnevale e avere una vita professionale, accademica come ce l’hanno molte donne. Bisogna rompere la visione coloniale. Si può essere una passista del Carnevale e studiare, ed essere madre e amare fare altre cose. Pensiamo a questa logica a partire dalla prospettiva del candomblé, in cui Exu è l’orixá dei crocevia, degli incontri e delle possibilità. Dico questo anche consapevole del fatto che del carnevale oggi si è appropriata una logica capitalista, essendo una festa nera economicamente dominata da persone bianche. Quindi quando dico che mi sono riconnessa alla mia ancestralità è perché non ho potuto viverla quando ero bambina. Comprendendo tutte le dinamiche coinvolte nel carnevale, penso però che è un luogo che deve essere nostro, un luogo di resistenza, un luogo nero, un luogo di comunità. È un luogo che ci offre altre possibilità e che noi dobbiamo rispettare.

Grazie a una serie ricorrente di esempi legati alle esperienze della sua famiglia, ma non solo, lei descrive il lavoro delle donne non come un espediente per affrancarsi dalla dipendenza maschile né come baluardo di libertà. In particolare  parla del lavoro domestico come una forma di schiavitù legata al marito, alla casa, a modelli di pulizia e decoro.
Sì, scrivo a partire dall’esperienza di mia madre, che diceva «ho lasciato una schiavitù per entrare in un’altra»: si era licenziata dall’impiego domestico a san Paolo per diventare una casalinga a Santos. E infatti ha passato la maggior parte della sua vita a pulire, a cucinare, a prendersi cura dei figli – quando non si prendeva cura di quelli degli altri, lo faceva con i suoi. Nel caso delle donne nere, c’è anche l’aggravante della mancanza di opportunità economiche. In Brasile, la docente Juliana Teixeira ha scritto molto sull’esperienza comune delle donne nere ingabbiate in questo ambito e anche in Europa c’è un’importante letteratura sull’argomento, come le opere di Silvia Federeci e Françoise Vergès. Guardando a questa prospettiva di non riconoscimento e precarizzazione, mia madre si vedeva in una situazione di schiavitù. Quando analizziamo le prospettive indicate da altri riferimenti, come il candomblé, capiamo che la casa può anche essere un posto di potere. In una tradizione afro-brasiliana, la donna che cucina ha un ascendente notevole sulla casa, anche perché è lei che prepara il cibo. E ricordiamo molte storie tramandate dalle più anziane, le quali raccontano che quando le donne volevano vendicarsi su uomini violenti e aggressori mettevano «cose» nel loro cibo. In questo senso, nella mitologia del candomblé, Iemanjá non è solo la donna di casa, ma la padrona. Nulla, tanto meno il comportamento dei figli e di tutta la famiglia, sfugge alla sua autorità. Per questo penso che incorporare una visione che superi lo sguardo patriarcale sulle donne in ambito domestico sia fondamentale per il riconoscimento del fondamentale lavoro che milioni di donne svolgono ogni giorno. Mia madre è stata altrettanto importante nella mia formazione e in tutto ciò che sono diventata.

Lei scrive che le donne nere in Brasile sono viste come subalterne o dee. Spiega poi quanto sia crudele e vincolante la narrazione che le vuole «forze della natura». In quale misura questa apologia dell’energia maschera la negligenza e la violenza di chi si serve di loro?
Sia in questo libro, come in altri miei lavori, mi occupo della violenza che sta dietro all’immagine della «donna nera forte», o della «donna nera guerriera», uno stereotipo strategico utile a naturalizzare l’insopportabile stato di deumanizzazione imposto a un intero gruppo sociale, che produce allo stesso tempo conseguenze materiali nella vita quotidiana. Ad esempio, ci sono diversi studi che indicano che le donne nere ricevono meno anestesia nelle procedure ospedaliere perché, dopo tutto, sono«forti» e sopportano. Io ho sentito il peso di doverlo essere quando i miei genitori sono morti. un anno dopo l’altro. Avevo solo 21 anni, non volevo essere forte e credo che non avrei dovuto essere costretta a esserlo. Ma ho dovuto lavorare e sostenere una casa che crollava. La realtà secondo cui la donna nera è il sostegno della famiglia permea l’esperienza collettiva. In seguito, sono stata riconosciuta per il mio lavoro e sono divenuta un riferimento per molte persone. Questo, nel tempo, ha rivelato un altro volto: quello della dea. Ma non sono una guerriera né una dea, sono un essere umano. Con tutte le sue complessità.

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