Diventare adulti in un campo profughi
Come restare umani se si vive per anni, cresce e diventa adulti in un campo profughi, in fuga da guerre e persecuzioni, separati dai propri affetti e lontano dalle proprie case e patrie? Cosa ne resta delle umane pulsioni e dei desideri individuali quando ogni altra parvenza di esistenza soggiace alle leggi della mera sopravvivenza? Questi gli interrogativi che Sulaiman Addonia suscita ne Il silenzio è la mia lingua madre (traduzione di Gioia Guerzoni, prefazione di Alessandra Di Maio; Francesco Brioschi Editore, pp. 282, euro 18) attraverso le vicende di Hagos e Saba, fratello e sorella fuggiti da Asmara con la mamma e rifugiati sin da bambini in un campo somalo tra i più grandi d’Africa che accoglie esuli di varia nazionalità «tutti entrati come esseri umani, ma di cui solo pochi ne usciranno intatti» perché, dice Saba, «il disgusto è un gusto acquisito».
NEL MICROCOSMO del campo tra le foreste, dove al puzzo della latrina all’aperto si mescola il profumo dei fiori selvatici che crescono sulle colline, tutto è sospeso e indeterminato. Quando se ne ha in abbondanza, il tempo perde importanza e svanisce nel nulla, «nessuno ha uffici in cui lavorare, scuole da frequentare, un medico da visitare, un garage da aprire, una stazione di polizia da gestire, tutto si ricicla al campo, la felicità come la disperazione». Alle prese con una umanità varia e fragile che fa esperienza quotidiana della transitorietà, i due fratelli, legati indissolubilmente dalla disabilità di Hagos che gli impedisce di comunicare con la parola e da un loro intimo e misterioso linguaggio, scoprono la sessualità e l’identità di genere, compiendo un doloroso passaggio alla vita adulta.
Per Addonia (nato nel 1974 in Eritrea da madre eritrea e padre etiope, scappato con la sua famiglia in seguito al massacro di Om Hajar e all’uccisione di suo padre, e naturalizzato britannico insieme al fratello Saleh dopo aver vissuto in campi per rifugiati in Sudan e Arabia Saudita, assistendo a molta violenza) la perdita della lingua madre causa quella dei legami familiari, da cui l’adozione del silenzio (reale o metaforico) come lingua madre, e la ricerca continua di nuove patrie e spazi di appartenenza in nuove lingue.
LE MADRI e figure femminili del romanzo sono tutte donne combattenti, che fungono secondo l’autore da setaccio che filtra le sofferenze di una nazione, esemplificate dalla giovane ma già determinata Saba, testarda e implacabile nella sua ricerca dell’eccellenza, che sogna di studiare e diventare medico, coltivando un apparentemente folle desiderio di realizzarsi al di là dei limiti imposti, di viaggiare liberamente fuori dai confini del campo e di vivere in un mondo in pace.
A queste future eroine in nuce il libro è dedicato: «Alle bambine, le mie compagne di gioco/ nel nostro campo profughi:/ non avevamo giocattoli, solo l’immaginazione./ La nostra voglia di giocare era un analgesico/ in quel luogo dove mancava tutto./ Ogni volta che ero sul punto di cedere,/ era a voi che pensavo, e agli amici d’infanzia/ che abbiamo visto seppellire».
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