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Dispacci dall’abisso verde di leoni e scimpanzé

Dispacci dall’abisso verde di leoni e scimpanzéLeone del Serengeti National Park (Tanzania) foto Getty Images

GEOGRAFIE «Il cuore selvaggio della natura», un volume del giornalista David Quammen pubblicato da Adelphi. Tradotti i reportage scritti per la rivista «National Geographic» dall’autore del best-seller «Spillover»

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 6 ottobre 2024

Il 20 luglio del 2014 Mujuni Semata, un bambino ugandese di due anni di età, fu rapito e ucciso da uno scimpanzé. Il bimbo stava giocando nell’orto con cui si sfama la sua famiglia nel villaggio di Kyamajaka, in Uganda occidentale. Senza asili nido, le madri portano i figli con sé sui campi e anche Ntegeka doveva arrangiarsi così. Quando andò a prendere l’acqua potabile perdendo di vista i bambini per pochi secondi, uno scimpanzé entrò nell’orto, afferrò Mujuni e scappò.

Le urla attirarono altri abitanti del villaggio che si gettarono all’inseguimento. Inutilmente: «gli ha staccato il braccio, lo ha ferito alla testa, gli ha aperto la pancia e gli ha tolto i reni» raccontò Ntegeka qualche anno dopo.

QUELLO DI MUJUNI non fu l’unico incidente mortale. Solo a Kyamajaka furono tre i bambini rapiti e uccisi dalle scimmie, più altri cinque o sei gravemente feriti nel giro di pochi anni. Numerosi casi simili si verificarono nello stesso periodo in altri villaggi dell’Uganda occidentale e anche in diversi Stati. Quasi sempre, raptus isolati e inspiegabili da parte delle scimmie. Ma nei pressi del Parco Nazionale di Kibale uno scimpanzé ribattezzato «Saddam» uccise sette bambini prima di essere braccato e abbattuto.

Da alcuni anni, in Uganda ammazzare uno scimpanzé è reato. Di fronte agli infanticidi, sembra una correttezza politica che non ci si può permettere. Ma non è stato l’ambientalismo a causare quegli attacchi. Al contrario, è ciò che accade quando l’espansione umana ostacola la sopravvivenza degli animali nel loro habitat sempre più frammentato: le scimmie devono vivere ai margini della foresta, si avvicinano agli umani, gli saccheggiano i frutteti e talvolta si sfogano sui bambini. Lo racconta il giornalista David Quammen in uno dei reportage contenuti in Il cuore selvaggio della natura pubblicato per Adelphi per la traduzione di Milena Zemira Ciccimarra (pp. 444, euro 25). Quammen è l’autore di Spillover (Adelphi), il best-seller mondiale pubblicato nel 2014 che, in anticipo e nel disinteresse generale, aveva spiegato come nasce e si diffonde una pandemia.

La raccolta di oggi comprende 21 reportage scritti per la storica rivista «National Geographic» nei primi due decenni del secolo. Quello sugli scimpanzé dell’Uganda occidentale risale al 2020 ed è il più recente.

ALTRI RISALGONO fino ai primi anni duemila. Sono racconti spesso estremi, come quelli dedicati alle imprese di Mike Fay, capace di attraversare a piedi la foresta del Gabon. Una passeggiata di oltre un anno, aprendosi la strada a colpi di machete nella giungla, per monitorare dal basso la fauna e la vegetazione. Difficile narrare l’Africa subsahariana senza durezze. Oltre agli scimpanzé assassini, Quammen racconta dei «killer», un quartetto di leoni in grado di terrorizzare il parco nazionale del Serengeti e di uccidere i cuccioli e le femmine dei branchi di cui intendono prendere il comando. «La causa numero uno di morte per i leoni, in un ambiente indisturbato, è rappresentata dagli altri leoni», racconta al giornalista il biologo Craig Packer. «Almeno il venticinque per cento delle perdite di cuccioli è dovuto a infanticidio da parte dei nuovi maschi». O il disagio del maschio bonobo – specie cugina dello scimpanzé ma governata da un rigido matriarcato – «stressato dalla complessità della sua situazione». Il nemico vero per tutti, però, sono gli esseri umani.

Quelli a cui si accompagna Quammen per i suoi reportage sono naturalisti, esploratori, ingegneri del territorio perlopiù bianchi, ricchi e impegnati a salvaguardare la biodiversità africana, spesso con successo. Nessuno di loro coltiva il sogno di un ritorno alle origini incontaminate dell’Africa. Le depredazioni del colonialismo – ma anche dei governi post-coloniali che gli sono succeduti – sono ormai irreversibili. Secondo le proiezioni dei demografi, la popolazione dell’Africa raddoppierà nei prossimi trent’anni e nel 2100 ci vivranno oltre quattro miliardi di persone.
La speranza di uno sviluppo sostenibile arriva piuttosto da una visione del territorio che responsabilizza Homo sapiens senza escluderlo. Vale per gli scimpanzé ugandesi ma anche per la gestione dei lupi o degli orsi del Trentino.

UN ESEMPIO ARRIVA dal parco nazionale di Gorongosa (Mozambico) dove si sperimentano strategie controverse: da un lato si restituisce terreno alla foresta sottraendolo al land grabbing, dall’altro si introduce l’agricoltura di qualità in un’area protetta per difendere l’ambiente e i diritti umani delle comunità che provano a sopravviverci. Sostenibilità e diritti vanno insieme: «se le ragazze vanno a scuola e le donne hanno delle opportunità allora avranno famiglie con due figli» sostiene l’imprenditore e filantropo Greg Carr, che ha finanziato il rilancio di Gorongosa. «Il caffè e altre colture da reddito di qualità superiore (come miele e anacardi) offrono mezzi di sostentamento migliori alle persone del luogo e disincentivano la pratica del taglia-e-brucia da parte degli agricoltori per far spazio a campi di mais» scrive Quammen.

«Cosicché non solo proteggono le rimanenti aree di foresta sulla montagna, ma aiutano anche a rimboschire zone dove gli alberi sono stati abbattuti». Le donne hanno sfidato i kalashnikov delle milizie per uscire di notte e innaffiare le piante, e oggi «gli uccelli sono tornati, le api sono tornate».

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