L’“autonomia differenziata” che il ministro Calderoli ha lanciato, e il Consiglio Dei Ministri in prima istanza ha approvato, è prima di tutto un progetto fumoso. Ciò aumenta molto la sua pericolosità e la potrebbe far diventare fatale per il nostro paese. Si parla giustamente della sua iniquità, la si definisce come “secessione dei ricchi”. Se andasse in porto manderebbe all’aria la Costituzione e l’unità nazionale. Spezzerebbe il legame tra il governo centrale e le autonomie locali. Ma la cosa che più dovrebbe preoccupare è la sua fumosità, perché testimonia una volontà cieca di disunione.

La tendenza a disunirsi, a rompere i legami erotici, affettivi, culturali e politici, a dimenticare la storia (la nostra patria comune nel tempo), smarrendo il futuro, è la grande piaga di questo secolo in tutto il mondo. Spezzare la visione, la progettazione e il funzionamento dello spazio della nostra convivenza in mille pezzi autoreferenziali che nessuna alchimia potrebbe mettere insieme, è diventato un piacere sadomasochistico che sta mascherando la crescente difficoltà del godimento -erotico, sensuale, nella sua sostanza- della vita. Stiamo perdendo Eros che crea legami e cedendo troppo terreno a Thanatos che li distrugge. L’autonomia come autoreferenzialità ecco che cosa esprime nel “profondo della sua anima”, l’autonomia differenziata: non un progetto politico, ma lo smarrimento del rapporto con l’alterità, il camminare risolutamente verso l’abisso. Le forze politiche che credono, incautamente e irresponsabilmente, di promuoverla, sono strumenti inconsapevoli di forze che superano di molto la loro capacità di gestirle o di manovrarle.

Le differenze non sono identità a sé stanti, separate l’una d’altra, che, a seconda del caso e della necessità, si coalizzano o si combattono tra di loro, si ignorano o cercano di sopraffare l’una l’altra. Fuori dalla loro multiforme complementarità e dal loro gioco d’intesa sono gusci impersonali, classificatori vuoti di tipologie umane. La secessione dal legame erotico, affettivo, culturale e politico con l’altro, che finisce per appiattire il nostro mondo interno, se inizia a prendere il sopravvento è difficile arginarla perché la sua brutalità semplificatrice -tagliare con la spada il nodo gordiano, invece di scioglierlo- crea un sentimento di potenza che più non vede al di là del suo naso, più si esalta.

Perché le nostre relazioni, a tutti i livelli, sono diventate tanto complicate, intricate che preferiamo stroncarle per creare delle identità che sono extraterritorialità autolegittimate?

L’identità è una costruzione rigida, difensiva, una feroce prigionia della soggettività, se non è eccentrica a se stessa, se non prende forma nell’esposizione, dialogo con l’alterità che la co-costituisce. L’identità è l’idioma della nostra relazionalità, non esiste senza le relazioni. Vive nella molteplicità degli idiomi che, incontrandosi o scontrandosi, creano le armonie e le disarmonie del mondo.

Obbedendo all’idea folle che possiamo trascurare la cura di noi, delle nostre relazioni e dell’ambiente in cui viviamo, convinti onnipotentemente che a tutto si possa porre rimedio a posteriori, abbiamo lasciato troppo spazio alla tecnica che usiamo in modo estemporaneo e dispersivo. La visione globale e responsabile del mondo e dei nostri interessi condivisi (ridotti a bisogni materiali) cede catastroficamente spazio alle soluzioni “pratiche” che rammendano in superficie quello che è ferito in profondità della nostra relazione con la vita. Coltivare ognuno il proprio giardino, moltiplicare le definizioni identitarie senza collegare le identità alle relazioni, idolatrare l’immagine che finisce per catturare la nostra psiche, ci porta alla “servitù volontaria” a un destino di barbarie e dissoluzione. Prendiamo cura, invece, del giardino delle nostre differenze, del loro gioco di intesa che ci fa godere la vita.