Lavoro

Dieci anni di Clap: «Un torto fatto a unə è un torto fatto a tuttə»

Dieci anni di Clap: «Un torto fatto a unə è un torto fatto a tuttə»

La storia Le Camere del lavoro autonomo e precario (Clap) compiono dieci anni a Roma. Il racconto del sindacalismo sociale, la ricerca di un nuovo modo di auto-organizzare i precarə, come organizzare i non organizzati, le battaglie contro la disillusione e la frammentazione, la campagna per un reddito di base: "I diritti dei beneficiari dei sussidi sono sullo stesso piano di quelli dei lavoratori"

Pubblicato circa un anno faEdizione del 15 ottobre 2023

L’autorganizzazione ha una lunga storia. Quella sindacale ne è una parte sin dalle origini. Sempre questa pratica ha intrecciato l’esigenza di organizzare gli sfruttati nei luoghi del lavoro con quella di liberare gli oppressi  nella società creando nuove istituzioni. Chi lavora vive anche nella società. Un’idea apparentemente intuitiva che può diventare anche un problema. La separazione del sindacato dalla società, la sua specializzazione categoriale e professionale, una certa tendenza a trasformarsi in erogatore di servizi ha contraddistinto una fase della sua storia recente. E ha reso più complicato il rapporto con la rappresentanza dei nuovi lavori precari e autonomi cresciuti a dismisura con la trasformazione postfordista dell’economia e dei modi di produzione. È un problema serio per tutti.

Lo è anche per le Camere del lavoro autonomo e precario (Clap), un sindacato nato a Roma dieci anni fa per declinare di nuovo il triplice rapporto tra il problema del sindacato, la questione sociale e la politica a partire da un immaginario culturale che richiama, già dallo slogan più ricorrente di questa combattiva associazione, la storia degli Industrial Workers of the World (IWW), uno straordinario esperimento sindacale creato negli Stati Uniti ai primi del Novecento, raccontato in maniera vibrante da Valerio Evangelisti nel romanzo “One Big Union”.

Ne abbiamo parlato con il coordinatore delle Clap Tiziano Trobia, in occasione del compleanno del sindacato festeggiato al Casale Garibaldi  in Via Romolo Balzani 87 a Roma, durante il Festival del lavoro vivo “Clap & Go.”.

Tiziano Trobia, Camere del lavoro autonomo e precario
Tiziano Trobia, Camere del lavoro autonomo e precario (Clap)

Tiziano Trobia, le Clap sono nate insieme all’elaborazione collettiva raccolta in un libro pubblicato negli stessi mesi in cui vi siete costituiti: Sindacalismo sociale. Lotte e invenzioni istituzionali nella crisi europea (DeriveApprodi). Cosa intendete con questa espressione?

L’idea di sindacalismo sociale è il risultato di una riflessione sulla precarietà che dura da più di una generazione. Noi per anni abbiamo costruito consenso, ma siamo inciampati in un ostacolo: la mancanza di uno strumento, anche sindacale, che potesse essere efficace nella vita quotidiana dei lavoratori precari. Per superarlo abbiamo iniziato a fare ricerca nella storia del concetto di sindacato e siamo tornati alle sue origini,  precisamente a quello che un tempo si chiamava “sindacato territoriale”. Allora, a fine Ottocento, non era inteso ancora in senso corporativo, ma di prossimità. Quel sindacato ricorreva a pratiche di autorganizzazione prese dalla tradizione mutualistica, allora assai viva e presente in molti snodi della società. Quel sindacato non si limitava a rappresentare una o più categorie del “mestiere”. Coinvolgeva in maniera trasversale anche le associazioni tra i cittadini. Da qui nasce la nostra di sindacalismo sociale. Oggi cerchiamo di ibridare strumenti e pratiche di solito separate per stare sia nei posti di lavoro sia nei territori. È importante affrontare sia i problemi contrattuali e salariali. Ma bisogna anche occuparsi di quelli che eccedono i rapporti aziendali. L’impresa, il capitale, il lavoro stanno nella società.

Non è sempre stato così?

Certo, ma si tende a dimenticarlo. Oggi questa compresenza è ancora più attuale visto che si produce tantissimo anche nella società terziarizzata dove il lavoro è sempre più precario, i salari sono poverissimi e il plus-valore viene estratto anche dal lavoro di cura e in generale da ciò che è stata chiamata “riproduzione”. Negli ultimi 50 anni il rapporto tra produzione e riproduzione capitalistica è cambiato radicalmente. Il sindacalismo è stato spiazzato. Le Clap rappresentano un nuovo prototipo sindacale per affrontare questo problema.

Qual è la differenza tra il sindacalismo sociale e il sindacalismo di base?

Non dovrebbero servire altri sindacati che organizzano i lavoratori, ma lavoratori che organizzano l’azione sindacale. Siamo stati sempre contrari alla moltiplicazione delle sigle e a un certo atteggiamento un po’ litigiosocompetitivo. Le differenze stanno nel tentativo di cogliere le nuove trasformazioni dell’organizzazione del lavoro. Alcune istanze forse, negli ultimi anni, non sono state intercettate fino in fondo dai sindacati di base. Abbiamo allora cercato di immaginare un’azione sindacale per arrivare li dove non arrivano gli altri: i lavori frammentati in luoghi dove i lavoratori sono isolati. Abbiamo l’ambizione di organizzare gli inorganizzabili, anche perché nessuno per principio è inorganizzabile.

Che tipo di rapporto avete con i sindacati confederali?

Diciamo dialettico. In generale non dovrebbero esserci rapporti competitivi tra i sindacati anche perché la competizione tra le sigle allontana i lavoratori. Nonostante questo bisogna ammettere che nei posti di lavoro dove conviviamo con i sindacati confederali l’atteggiamento è talvolta più che ostile.

Perché?

Non siamo visti di buon occhio. Sembra a volte che bisogna mantenere il monopolio sull’azione sindacale e non invece organizzarsi insieme rispetto alle controparti. Si cerca sempre di escluderci dai tavoli ed emarginare le novità sindacali che emergono. 

In quali settori operate? E quali sono state le vostre principali battaglie ?

Abbiamo iniziato dalla sanità in convenzione e dalla sanità pubblica esternalizzata, nelle cooperative che operano soprattutto nel Lazio. Abbiamo ottenuto alcune importanti vittorie in termini di assunzioni e di riconoscimento degli anni di esperienza lavorativa. Ci occupiamo anche dei servizi e della ristorazione a bassissimi salari in cui abbiamo riscontrato la gigantesca difficoltà a trasformare i conflitti individuali in una lotta sindacale collettiva. Dopo alcuni anni abbiamo inaugurato un intervento largo nel settore para-pubblico, cioè le società in house: Anpal Servizi o Sogesid e altre agenzie legate ai ministeri. Qui proviamo a sottolineare la disparità nel trattamento salariale sia la precarietà senza fine. Abbiamo eletto Rsu e Rsa. In Anpal Servizi siamo riusciti a far assumere tutti i collaboratori: 600 circa. Un numero enorme.

Un bilancio della vostra attività fino ad oggi?

La strada da fare è tantissima perché ci scontriamo con condizioni di rapporti di forza svantaggiosi. Abbiamo difficoltà di agire tra i lavoratori più ricattabili. La frammentazione del mondo del lavoro che abbiamo analizzato dal punto di vista teorico, mostra concretamente quanto siano vulnerabili i lavoratori in carne ed ossa e quanto sia difficile trovare forme organizzative adeguate. Abbiamo però maturato un metodo: è nella prassi che bisogna registrare la differenza tra l’idea di partenza e la situazione concreta. L’importante è non perdersi nel quotidiano e tenere sempre a mente che nella tensione tra la teoria e la prassi cambiamo noi e cambia la realtà.

Una delle campagne alla quale partecipate è quella per il reddito garantito, di base, insieme a molte altre associazioni di diversa ispirazione. Come siete arrivati a questo percorso?

Nasce dalla nostra cultura politica dove il reddito di base è una questione fondamentale. Siamo sempre stati convinti che il dibattito che contrappone il reddito al salario è insensato. Sono strumenti che possono, e devono, rafforzarsi a vicenda. Siamo convinti che la qualità della vita delle persone vada al di là dell’occupazione del momento.

Cosa pensa della legge del movimento 5 stelle e della lega nel 2019 sul “reddito di cittadinanza”?

L’abbiamo sempre ritenuta insufficiente, anche perché aveva enormi problemi, e aspetti assai criticabili, a cominciare dall’esclusione razzista di cittadini extracomunitari residenti da meno di dieci anni in Italia. In ogni caso, anche perché prima non esisteva nulla, ha comunque funzionato da argine alla povertà per una porzione di “poveri assoluti”, ma molto meno e solo in piccolissima parte al lavoro povero. Dopo che è stato abolito, e rinominato in “assegno di inclusione” e “supporto per la formazione e il lavoro” dal governo Meloni, ci stiamo battendo per il ripristino di un reddito garantito per tutti i poveri relativi, e non solo quelli assoluti. Siamo consapevoli che questa è una prospettiva. Ma il dibattito politico in questo paese dovrebbe fare un passo in avanti.

Verso dove?

C’è bisogno di una misura universale e incondizionata all’interno di una gigantesca trasformazione dello Stato sociale e di una conseguente trasformazione del sistema fiscale in senso molto più progressivo e senz’altro ispirato a principi di uguaglianza e giustizia.

Questa idea di “reddito di base” andrebbe sganciata dal lavoro e dalla formazione obbligatoria?

Assolutamente sì. Perché altrimenti rischierebbe di diventare uno strumento di ricatto che fa scattare la cosiddetta trappola della povertà.

Che cos’è questa “trappola della povertà”? E come se ne esce?

È una situazione che ti incastra. Ti costringe ad accettare qualunque lavoro a qualsiasi condizione per non incorrere nella sospensione di un sussidio comunque insufficiente. L’esempio dell’Hartz IV in Germania è molto indicativo. Lo stesso accade in Francia o in Inghilterra. Dobbiamo opporci al tentativo di importare nel nostro paese questi meccanismi ingiusti e violenti. Non ha senso opporsi alla rimozione del “reddito di cittadinanza” e poi chiedere di applicare ciò che realmente prevede questa misura, cioè il ricatto contro i suoi beneficiari. Tra l’altro il Workfare – così si chiama questo tipo di politica  – è previsto anche dalla nuova legge fatta da Meloni. Per noi i diritti dei beneficiari del “reddito” stanno sullo stesso piano di quelli dei lavoratori. È la stessa battaglia.

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