Dialoghi con il deserto ad AlUla
Mostra Si apre in Arabia Saudita la II edizione di «Desert X AlUla 2022» (fino al 30 marzo), biennale di arte contemporanea
Mostra Si apre in Arabia Saudita la II edizione di «Desert X AlUla 2022» (fino al 30 marzo), biennale di arte contemporanea
Senza mezze misure, né possibilità di compromessi, il deserto invita a ritrovarsi (più che a perdersi) in un orizzonte aperto in cui tutti i sensi sono in allerta. Ad AlUla, nella cornice incontaminata del deserto arabico, tra rocce millenarie dalle sfumature che vanno dal giallo sabbia al rosa pallido, si apre la II edizione di «Desert X AlUla 2022» (fino al 30 marzo), biennale di arte contemporanea che nasce dalla collaborazione di «Desert X» (manifestazione di land art che si svolge a Coachella Valley in California) con la Royal Commission for AlUla, con la direzione artistica di Neville Wakefield che condivide il ruolo con Raneem Farsi e Reem Fadda (curatorial advisor).
«Dai tempi biblici il deserto è luogo di riflessione», afferma Wakefield, introducendo il concetto di «sarab» (miraggio) tema di questa edizione. Ad AlUla i 15 artisti invitati – Shadia Alem, Dana Awartani, Serge Attukwei Clottey, Claudia Comte, Shezad Dawood, Jim Denevan, Stephanie Deumer, Sultan Bin Fahad, Zeinab AlHashemi, Alicja Kwade, Shaikha AlMazrou, Abdullah AlOthman, Khalil Rabah, Monika Sosnowska e Ayman Zedani – si sono interrogati sull’essenza stessa del luogo, in una sorta di silenzio contemplativo che li ha portati a dialogare con il deserto e la sua immensa bellezza, non certo a vivere quest’esperienza come una sfida. Ne è nata una narrazione polifonica che intercetta il desiderio umano (del tutto illusorio) di controllare la natura, in cui i site-specific parlano di sogni, finzione, storia, mito, esaminando anche la dicotomia tra il mondo naturale e quello artificiale.
Opere perfettamente integrate nell’ambiente: dai coni di sabbia che trascrivono l’idea di costellazione ai poliedri di pelo di cammello; dalla sinuosità che suggerisce l’acqua del wadi agli alberi d’ulivo piantati nella sabbia; dalla simbologia delle tombe nabatee al panorama che si riflette negli specchi in una prospettiva che mescola realtà e illusione. «Per noi africani il deserto è morte» – afferma l’artista ghanese Serge Attukwei Clottey davanti alla sua cascata dorata, Gold Falls (in cui è evidente la citazione di El Anatsui), creata cucendo insieme migliaia di piccoli quadrati ritagliati dalle taniche di plastica raccolte nel suo paese – «qui, invece, è un inno di celebrazione alla vita attraverso l’arte».
Questo impulso alla creatività trova conferma anche in altri appuntamenti promossi dalla Royal Commission for AlUla, tra cui il primo programma di residenza d’artista in collaborazione con Afalula e Manifesto che si è svolto tra le palme di Mabiti AlUla con gli artisti Rashed AlShashai, Sara Favriau, Talin Hazbar, Laura Sellies, Muhannad Shono e Sofiane Si Merabet, le cui opere sono esposte nella mostra The Oasis Reborn (fino al 31 marzo) e nel villaggio AlJadidah con la rassegna Cortona On The Move AlUla che ha organizzato la mostra fotografica Past Forward – Time, Life and Longing, a cura di Arianna Rinaldo e Kholood AlBakr (fino al 31 marzo), che presenta anche il tributo a Latif Al-Ani, memoria storica dell’Iraq tra gli anni ‘50 e ’70, fotografo di grande umanità recentemente scomparso.
La mostra «What Lies Within»
Nel gioco di specchi, la bellezza senza tempo delle rocce di Ashar Valley si amplifica in una continuità che va oltre la superficie. Non è un caso che Maraya AlUla, il modernissimo cubo di specchi che ha il primato di essere l’edificio speculare più grande al mondo con i suoi 9740 pannelli (il progetto è di Florian Boje dello studio Giò Forma di Milano), perfetto contenitore per concerti e spettacoli teatrali, sia tra i progetti più innovativi della Royal Commission for AlUla (RCU). Nata nel 2017, nell’ambito di Vision 2030, questa istituzione ha l’obiettivo di salvaguardare e promuovere le bellezze naturali e culturali dell’area geografica di AlUla, nel nord-ovest dell’Arabia Saudita, a lungo sconosciuta al mondo esterno. Per la prima volta per il festival AlUla Arts, tra gli appuntamenti di AlUla Moments insieme ad altri eventi tra cui DesertXAlUla, l’hub ospita la mostra What Lies Within curata dall’artista Lulwah AlHomoud (fino al 20 marzo). Un’esposizione che esce dalla dimensione privata della collezionista Basma AlSulaiman, mecenate tra le più attive del paese (nel 2010 ha creato il museo virtuale Basmoca), per entrare in uno spazio fisico. Il focus è sul lavoro di 17 artiste e artisti sauditi noti anche in ambito internazionale, a partire da Shadia Alem e la sua installazione The Black Arch con cui il Regno Saudita inaugurava il primo padiglione alla Biennale d’Arte di Venezia del 2011. Mai esposta precedentemente in loco, questa nuova edizione dell’opera immersiva di specchi e acciaio, musica e luce – parafrasi visuale del concetto di viaggio spirituale – si arricchisce di nuovi interventi video e sonori realizzati dall’artista a La Mecca. Proprio come Magnetism di Ahmed Mater, esposta a Venezia nella tappa di The Edge of Vision (2009) che propone in chiave concettuale il magnetismo che attrae i pellegrini in continuo movimento intorno alla Ka’ba, rappresentata da una calamita nera.
La selezione delle opere è frutto di un dialogo ragionato tra la collezionista e la curatrice, il cui lavoro Language of Existences (2020), a chiusura del percorso espositivo, rientra in una ricerca che, ancora una volta, è connessa con l’Islam, combinando geometria e calligrafia in un’originale declinazione dei 99 Bellissimi nomi di Allah. AlHomoud, come altri artisti, tra cui Maha Malluh, Manal AlDowayan, Dana Awartani, Zahrah Al Ghamdi, Rashed AlShashai e Ahmed Mater, partecipa contemporaneamente alla Diriyah Contemporary Art Biennale con l’installazione The Alphabet che è un’ulteriore declinazione della sua poetica basata sulla ricerca spirituale. AlUla, peraltro, dista solo 300 km da Medina, cuore della religione islamica, a cui si riferisce Adel Alquraishi nella serie fotografica The Guardians (2013): ritratti a colori dei guardiani della Tomba del Profeta a Medina, mai fotografati prima di allora.
Immagini che sono la testimonianza di una tradizione risalente all’impero ottomano che prevedeva che la chiave del luogo sacro fosse custodita da uomini di origine abissina che vivevano segregati. Invece, documentano l’aspirazione ad un futuro di possibilità le foto in bianco e nero di Manal AlDowayan della serie The Choice e I’m Series (2005), portavoce delle rivendicazioni dei diritti delle donne nella società patriarcale saudita che, con le recenti riforme promosse dal principe ereditario Mohammed bin Salman, si aprono a cambiamenti epocali a partire dalla libertà di guidare: una conquista conseguita. What Lies Within esplora anche il concetto d’identità e di trasformazione attraverso una poetica del quotidiano che nell’installazione Food for Thought «Al Muallaquat 5» (2017) di Maha Malluh acquisisce una valenza universale. L’artista ha comprato nei mercatini dell’usato 53 vecchie pentole d’alluminio che, messe sulla parete, sembrano membri di un unico grande clan in posa per il ritratto di famiglia. Raccontano storie anonime, ma universali, con quei segni lasciati dal fuoco e dall’usura.
L’arte come forma di preghiera e di meditazione: intervista a Sultan bin Fahad
Sultan bin Fahad (Riyadh 1971, vive e lavora a Los Angeles) è presente con opere site-specific sia a Desert X AlUla 2022 che alla Diriyah Contemporary Art Biennale.
Nel corso del 2020 la sua prima personale in Italia – Frequency – è stata organizzata alla Fondazione Alda Fendi – Esperimenti – nello spazio espositivo Rhinoceros a Roma.
Ti sei formato in Business Administration Management, cosa ti ha portato nel 2005 a dedicarti all’arte contemporanea?
La storia è più lunga (sorride). È come quando sei atleta: hai talento oppure non ce l’hai. Sport e arte hanno sempre fatto parte della mia vita. Ero nella squadra nazionale di Taekwondo e ho sempre dipinto. Nel frattempo per due anni ho studiato ingegneria e da lì mi sono spostato nel settore economico. Quando mi sono laureato e per la specializzazione mi sono trasferito a San Francisco, dove c’erano così tanti stimoli culturali, ho realizzato che quello che facevo poteva essere considerata arte. Era il 1994. Per parecchio tempo ho portato avanti un doppio lavoro. La data del 2005 si riferisce alla mia prima esposizione. Devo ringraziare mia moglie che mi ha incoraggiato ad andare avanti in questa direzione.
Consideri la pittura astratta, che è stato il tuo primo linguaggio artistico, una forma meditativa? Cosa ti ha portato a orientarti verso l’installazione?
Sì, la pittura astratta è una forma meditativa proprio come lo sport. All’epoca facevo anche scultura. Quanto allo sport, che è pure una forma di meditazione, ho cominciato a praticare Taekwondo quando avevo 11 anni. Però mi sono fatto male, ho avuto dieci interventi alle ginocchia e due alle spalle e dopo gli interventi alle spalle non riuscivo più a dipingere, perciò ho deciso di sperimentare altri media. Il lavoro installativo è quello con cui ho sentito che potevo esprimere veramente me stesso.
Gli oggetti del quotidiano sono una grande fonte d’ispirazione: quando lavori ad un progetto segui una metodologia?
Inizio facendo molte ricerche, poi mi guardo intorno. Mi piace camminare, andare in giro, cercare nei mercatini delle pulci. Sono collezionista di opere d’arte e design di ogni periodo, memorabilia e oggetti vintage. Tutti i miei lavori partono da pezzi che colleziono, sia oggetti trovati che reperti archeologici. Il mio processo artistico s’innesca nel tentativo di trasformare concettualmente una fonte del passato in un’opera d’arte contemporanea.
In che modo in «Desert Kite», che hai realizzato per Desert X AlUla 2022, l’utilizzo di adobe e fiberglass si relazionano con il contesto?
Ci sono anche altri elementi, considerando che l’adobe è un impasto di fango, sabbia e paglia. Ho usato fiberglass per creare il «corno» perché volevo che fosse di un materiale resistente e mi piaceva che l’opera nascesse dalla combinazione di un materiale naturale e un altro in parte artificiale. Il colore, tra il verde e il celeste, è associato alla mia immaginazione dell’acqua, quanto alla forma ricorda il feto nel grembo materno, ma è anche un riferimento all’animale alato a protezione delle tombe nabatee di Hegra. La punta che si erge dalla struttura di adobe sembra un miraggio. In lontananza il suo sfavillìo nel deserto è come un richiamo per gli animali e gli esseri umani.
Anche in quest’opera è presente la componente spirituale che è sempre centrale nella tua ricerca…
Sì, sono musulmano e nella mia arte c’è anche la preghiera che è una forma di meditazione. In particolare, in quest’opera l’idea era quella di portare l’osservatore a riflettere, nel silenzio del contesto, sulla parte più profonda di sé. L’installazione Dream Traveled per la Diriyah Contemporary Art Biennale, invece, pur essendo connessa ad una profonda spiritualità è completamente diversa. È una stanza coloratissima realizzata con perline colorate dove il pavimento è in pannelli di vetro acrilico illuminato dai LED. Entrandovi si ha la sensazione di trovarsi in un’altra dimensione. Attraverso un passaggio scuro ci si immerge in una storia che è in parte la documentazione del viaggio dei fedeli a La Mecca. È l’esatto opposto del concetto di «trappola» visiva legata all’opera nel deserto.
Un tappeto della memoria fatto di mattoni: Diriyah Contemporary Art
«In qualsiasi contesto sono cosciente che il mio processo è manuale e lento». afferma Dana Awartani, artista palestinese-saudita, il cui lavoro è incentrato sulla preservazione e il recupero del patrimonio identitario islamico «Uso tessuto, ricamo, miniatura, ceramica provando a superare quel gap tra la tradizione artigianale e l’arte contemporanea, perché penso che l’evoluzione debba essere all’insegna della continuità». Se per Desert X AlUla, utilizzando l’arenaria locale composta di granelli di sabbia, Awartani si è ispirata alle tombe nabatee di Hegra (Mada’in Salih) per realizzare l’opera Where The Dwellers Lay concependola come luogo di contemplazione in sintonia con il paesaggio, per la Diriyah Contemporary Art Biennale (l’opera è commissionata dalla Diriyah Art Foundation) ha ipotizzato un «tappeto» della memoria, delicato e poetico nella sua percepibile fragilità, con i mattoni di adobe prodotti in diverse parti dell’Arabia Saudita.
Standing by the ruins of Aleppo è l’ideale ricostruzione del cortile della grande Moschea di Aleppo danneggiata nel 2013, durante la guerra. Aleppo come Diriyah, antico sito nei dintorni di Riyadh, area della capitale che ospita la I edizione della Diriyah Contemporary Art Biennale (11 dicembre 2021-11 marzo 2022), è patrimonio Unesco. Feeling the Stones è il titolo di questa rassegna di arte contemporanea, prima del genere nel Regno Saudita, curata da Philip Tinari con il team internazionale di Wejdan Reda, Shixuan Luan e Neil Zhang, che prende in prestito lo slogan «Crossing the River by Feeling the Stones» (attraversare il fiume sentendo le pietre) usato nella Cina degli anni ’80 come metafora per descrivere l’apertura del paese verso epocali trasformazioni socio-economiche.
Nei circa 12mila metri quadrati, la Diriyah Contemporary Art Biennale si snoda in sei sezioni – Crossing the River, Experimental Preservation, Peripheral Thinking, Going Public, Brave New Worlds, and Concerning the Spiritual – presentando un fitto calendario di eventi, tra lecture e laboratori, insieme all’esposizione delle opere di 60 artisti internazionali, incluse quelle della Al-Mansouria Foundation e l’Ithra Art Prize alla IV edizione che vede come vincitrice Nadia Kaabi-Linke con il site-specific E Pluribus Unum – A Modern Fossil, monumentale riflessione sull’impatto della pandemia sui viaggi arei commerciali e sul rapporto tra umanità e progresso. Tra gli artisti ifigurano William Kentridge, Mohamed Melehi, Sarah Morris, Koki Tanaka, Huang Rui, il collettivo Birdhead, Tavares Strachan con opere che utilizzano tecniche e materiali diversi: particolarmente coinvolgente l’installazione Dream Traveled del saudita Sultan bin Fahad che declina il tema della spiritualità in un festoso e coloratissimo viaggio nel viaggio, tra scrittura e tradizione orale, miniatura e arte popolare, invitando il pubblico a entrare nella «tenda» dalle pareti interamente coperte da raffigurazioni intrecciate con le perline che raccontano l’hajj, il pellegrinaggio a La Mecca nella sua evoluzione nel tempo, tra realtà e percezione illusoria. Riportano a questioni legate all’eco-sistema e alla crisi ambientale, i sauditi Ayman Zedani con Between Desert Seas che punta l’attenzione sulle megattere del Mar Arabico a rischio d’estinzione e, sempre nella sezione Brave New Worlds (nuovi mondi coraggiosi), Muhannad Shono – artista concettuale che rappresenterà l’Arabia Saudita alla 59. Biennale di Venezia – che nella scultura cinetica On Losing Meaning affida ad un robot programmato, coperto di petrolato e grafite, la possibilità di tracciare i propri segni nello spazio chiuso della superficie su cui si muove. Un’opera che «rappresenta il desiderio dell’artista per il cambiamento e per una comprensione più fluida del significato, della lettura e dell’interpretazione».
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