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Dessì, la rinascita nel giardino monastico

Dessì, la rinascita nel giardino monasticoGianni Dessì, uno dei «quadri» di "Terra, terre", 2024, in scena a Perugia, Museo Archeologico, fino al 17 novembre

A Perugia, Museo Archeologico, "Terra, terre" In ordine ritmico, quadripartito, silhouette estatiche di donne e uomini, adolescenti e cagnolini, giganti e infanti, e gli angoli acuti di un uscio paradisiaco: la ciclicità liberatoria di Gianni Dessì, nel chiostro rinascimentale

Pubblicato 8 minuti faEdizione del 6 ottobre 2024

Nel contesto di un’ampia rassegna, mostra diffusa che da giugno anima di proposte contemporanee alcuni centri e istituzioni di cultura umbri (da Narni a Città di Castello, risalendo lungo la linea del Tevere), Perugia ospita, fino al 17 novembre, un intervento di Gianni Dessì, negli spazi all’aperto del ricchissimo Museo archeologico.

È infatti nel chiostro della sua sede monumentale, il convento di San Domenico, che l’artista ha scelto di disporre, in ordine ritmico, alcuni gruppi scultorei di introversa concentrazione, facendo seguito a un invito giunto nell’anno in cui il suo contributo all’agenda perugina s’è concretizzato anche nel manifesto della rassegna di maggior risonanza per quel calendario, e cioè Umbria Jazz.

L’arioso cortile è il polmone di cielo di uno fra i complessi religiosi più antichi e prestigiosi, ancora vivi in città. E se la massiccia basilica, con le sue imponenti vetrate absidali, è andata crescendo sin dal XIV secolo, attraverso episodi sciagurati e perigliose vicende civiche, il grande chiostro è invece un manifesto d’armonia e proporzioni, in perfetto stile renaissance: completato fra Quattro e Cinquecento, in due campagne d’edificazione susseguenti, si sviluppa su un doppio ordine d’arcate, rette da esili colonne in omologa sequenza di capitelli, basi e plinti.

Affacciato su un hortus conclusus di verde splendore, trova il proprio centro nella ghiera di pozzo, soprelevata su un alto scalino: e a parlare con Dessì, proprio quest’elemento d’acqua al cuore d’un giardino «monastico» diviso in sezioni regolari, sarebbe servito da detonatore per un disegno radicato nel suo passato recente, nella sua produzione degli ultimi anni.

È, del resto, almeno dai primi duemila che egli ha cominciato ad affidare le sue intense riflessioni anche al formato tridimensionale: testimonianza impegnativa (e pioniera) – dopo un esordio alla Galleria dell’Oca –, la personale tenutasi nel 2006 al Macro di Roma, in coppia con Leandro Erlich per cura di Danilo Eccher. In quell’occasione, erano stati presentati pezzi come l’istallazione Tre, assieme a una scelta di combine painting su vetroresina; a Perugia, invece, sotto al titolo Terra, terre emergono dal gioco di ombra e luce del peristilio silhouette estatiche di uomini e donne, infanti e giganti, cagnolini e adolescenti, assieme agli angoli aguzzi di un uscio celestiale, imbevuti d’una parca palette di grigi, neri e gialli smaglianti.

La serie, che pare organizzarsi in un andamento antiorario, allude a un originale processo di «crescita», contro il Tempo, tradotto infine in principio di elevazione. Nelle quattro tappe d’una umanissima via crucis, senza sangue e sacrificio, si passa così dalla posa ombelicale del primo feto, ravvolto in un ripiegamento di coerenza japoniste, all’attenzione perspicace del terzo gruppo, quello che ha l’aria coriacea d’un nucleo familiare, stretto in una catena di prossimità solide, in un’abitudine distratta d’affetti.

A chiusa, un arco, una porta, un accesso ad astra. La figura disconosce l’innesto doloroso della croce, per rimandare piuttosto al vuoto aperto di una possibilità ulteriore. Suggerisce l’altrove la traccia schiarita sullo sguancio, ravvivante come un lampo l’atto intimo dell’attraversamento, così come il sole – nei giorni di sereno – riga le nervature esposte dei corridoi porticati, tutt’attorno. Il dialogo fra luogo e intervento d’artista si serra fitto attorno a questa suggestione; tuttavia, pure la scelta di sottolineare – tautologicamente – la natura «terrestre» del chiostro, cinta dall’astrazione ragionevole delle colonne, aiuta le sculture a riempirsi d’un senso pieno, in sintonia con l’ambiente che le ospita.

Nell’«orto di meditazione» che fa da sfondo all’intervento, risuona infatti necessario il racconto di silenziosi distacchi dal peso d’una natura figurata: creaturalità sofferta, che s’appunta all’azzurro luminoso in cerca della propria origine più vera. Lo riassume bene il secondo gruppo, nella tettonica eloquente d’un volto indicato, fra rughe e grinze, dall’orografia carnosa del basamento imperfetto.

Non stupisce allora che, ad ammirare il vasto «intervallo» nella serrata sequenza degli ambienti museali, circondato da urne antiche e reperti classici, Dessì abbia pensato di riaddattarvi, su scala maggiore, piccole prove in terra, cotte in passato nel ricorso alla tecnica del raku: perché anche la scabra incompiutezza delle superfici di ciascun personaggio consuona con questo processo di rastremazione, interrotto dalla politezza geometrica del «quadro» ultimo. Ché poi, nella possibilità di circumnavigare il cortile in circolo senza mai interrompere il percorso, lo stesso andamento della serie proposta a San Domenico apre pure all’idea di un’assoluta circolarità, liberante in fondo la sequenza da un finalismo forzatamente teleologico. Così, quello che appariva al principio nella forma di un cammino, si traduce, in conclusione, in un ciclo ritornante; e in tale dinamica, fa seguire alla soglia l’immagine di una rinascita, in fragilità e incertezza, nel corso di una recondita riflessione sul sé profondo.

La stessa catena quadripartita, pur nel rispetto conforme degli spicchi in cui si divide lo spazio conventuale, rimanda ad altre, convenzionali ciclicità, quelle delle età dell’uomo, delle stagioni del mondo, perfino del fondamentale schema alchemico; a ribadire ancora una volta che l’esperienza proposta in San Domenico va certo intesa come un itinerario in hominem, senza tuttavia che quest’ascesa costituisca di per sé un’occasione terminale, stretta nella traiettoria dell’occasione decisiva. Un atto, per questo, davvero di liberazione, che esorcizza lo stesso chiostro usato da palco per un simile «teatro» con le sue qualità di griglia immutabile, di calcolo esatto di misure e proporzioni.

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