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Desiderio d’infanzia perpetua, libera e amorosa: «Vathek»!

Desiderio d’infanzia perpetua, libera e amorosa: «Vathek»!Jean-Léon Gérôme, The Carpet Merchant /Carpet Merchant in Cairo, 1887 ca., Minneapolis Institute of Art

Narrativa orientalista Il fortunato «gothic Novel» fu scritto da William Beckford in soli tre giorni, in francese, nel 1781. Era un ventenne di ricchissima famiglia con possedimenti in Giamaica. Ora lo ripropone Skira

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 5 gennaio 2020

«Il sonno della ragione genera mostri» scrisse Goya alla fine del Settecento, ma alcuni furono germi attivissimi di nuova vita. Il sonno e soprattutto gli incubi della ragione permisero rivoluzioni altrimenti impensabili, la assoluta incandescenza della Romantik, il totale ripensamento della cultura europea. La perturbante confusione del periodo di transizione prese il nome generico di Preromanticismo, un conciso capitoletto nella storia della letteratura inglese dove sono ammassate forme letterarie incongrue e dispari: il primitivismo poetico di Ossian, l’esotismo dei due litigiosi Horace Walpole e William Beckford, i loro rispettivi castelli il rococò Strawberry Hill e il gotico Fonthill Abbey, Le mille e una notte, i romanzi gotici della signora Radcliffe, la minaccia, pur corteggiata, del sublime che sciolse nei suoi tenebrosi colori il delicato e sensuale pallore delle donne di Gainsborough. «Dove cessa la grazia pura, comincia la maestà del sublime, composto di pena, di piacere, di grazia, di deformità così commiste, che la mente non sa più che nome dargli, se pena, o piacere, o terrore» – scrisse un anonimo nel 1785.
Il dottor Johnson non aveva ancora terminato il suo monumento di critica letteraria The Lives of the Poets (1779-’81) che, per soddisfare un bisogno estetico fino ad allora inespresso, un grande pittore, William Hogarth, tracciò la linea della bellezza, la S serpentina che fa godere del concavo e del convesso. La conchiglia rococò è elevata a una nuova metafisica idea di centro. «Poiché l’immaginazione scivolerà naturalmente nello spazio vuoto racchiuso dalla conchiglia, e lì subito, come da un centro, osserverà tutta la forma dell’interno distinguendone le parti opposte corrispondenti così nettamente da impadronirsi dell’idea complessiva dell’oggetto e del suo significato da qualunque prospettiva…» (L’Analisi della Bellezza, 1753, ottima traduzione di Maria C. Laudando, Aesthetica edizioni 2002). Le idee fluttuanti da Parigi avevano già sedotto Pope che nel suo Riccio rapito aveva intrecciato ironicamente erotismo e classicismo; Hogarth, pittore di vita vissuta, disegnava anche conchiglie, ricciuti candelabri, profili di danzatori, forme lanceolate di fiori o di acque. «È uno stile femminile, talmente femminile che la sua figura principale, la conchiglia, con la sua accogliente concavità, suggerisce esattamente quel che Verlaine vide in una conchiglia…», e ne fu turbato, ricorda Praz.

Goticismo e sentimentalismo
Esotismo di temi e di luoghi, chinoiserie, orientalismi vari, lievità di toni e di colori, anche nel racconto di Johnson, Rasselas Prince of Abissinia (1759) che attinge alla ricca Bibliothèque orientale di D’Herbelot (1697): un misogino principe abissino e le sue timorate amiche partono alla ricerca del significato della vita – e non lo trovano! Il gusto del rocaille era diffuso nelle classi alte che parlavano francese, e lo stesso Piranesi, già alla fine del secolo, allineava conchiglie, anfore, poltrone, portantine tondeggianti ornatissime accanto alle sue terrifiche architetture. L’accettazione di questo duplice canone estetico (tuttora attuale) arrivò con l’Inchiesta sul Bello e il Sublime di Edmund Burke, 1757-’59 (a cura di Giuseppe Sertoli e Goffredo Miglietta, 1985, sempre da Aesthetica edizioni). Goticismo e sentimentalismo, coordinate del gusto e della sensibilità del momento dureranno fino ai Romantici e oltre. «Coordinate antitetiche a quelle (neo)classiche perché ciò che esse definiscono è la dissoluzione di quella soggettività ‘piena’ che ne era stata il cardine». Quindi perdita e depotenziamento dell’io a fronte di ciò che lo eccede, le imposizioni grandi e terribili del sublime: il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio che annientano i colori della bellezza, i verdi chiari, gli azzurri pallidi, i bianchi spenti, i rosa e i viola.
Nella collana «Gotica» di Skira, nera di nome e di fatto, ricompare adesso – per l’ottima traduzione di Aldo Camerino e Ruggero Savinio che apparve nel ’66 da Bompiani, «Il Pesanervi» – il famoso Vathek di William Beckford, insieme ad altri sette brevi racconti, con sedici illustrazioni di soggetti moreschi dalla Nonesch Edition del 1929 (pp. 260, € 22,00). Fu scritto in tre giorni, prima in francese, poi in inglese più volte, nel 1781. Beckford, allora ventenne (nacque nel 1760), era di ricchissima famiglia ‘plantocratica’, proprietaria di enormi possedimenti coloniali in Giamaica, in cui non si risolse mai di andare. Lasciò l’Inghilterra dopo la morte della moglie e delle figlie, e il sospetto di atti omosessuali con il minorenne William Courtney, futuro baronetto di Devon. Conosciamo già il Diario di William Beckford in Portogallo e Spagna 1787-1788, curato da Pietro Deandrea, Edizioni dell’Orso 2008 (di cui si è scritto su queste pagine). «Come sono stanco di portare una maschera sul volto. Quanto mi sta stretta – mi irrita fino a infiammarmi. Non male come metafora, che ne dici? Possiedo tutta la fantasia e lievità di un fanciullo, e darei una tenuta o due per saltellare tra le gallerie del Patriarcato assieme al menino senza essere osservato».

Si levò la luna, la sera era deliziosa…
Non stupisce che la critica abbia interpretato Vathek come il risultato di una violenta crisi adolescenziale scritto a caldo, illogico, furioso, abnorme – e perciò debordante e contagioso. La figura materna, verticale, tenebrosa, autorizza il delirio del giovane califfo. Non c’è padre – né spazio, confine, consequenzialità nel racconto orientalista europeo. Ma ironia sì. «Intanto si levò la luna; la sera era deliziosa, e si trovarono così bene che decisero di cenare all’aria aperta … Surlemémé, abilissima nel preparare l’insalata, riempì grandi coppe di porcellana con le erbe più delicate, uova d’uccelletto, latte cagliato, sugo di limone e fette di cetriolo, e servì tutto con un gran cucchiaio di Cocknos». Come sarà il regno sotterraneo di Eblis, principe del Male? Ovviamente sublime, miltoniano, bello e terribile. Eblis siede sul globo di fuoco, con «il volto di un giovane di vent’ anni, i cui lineamenti, nobili e regolari, parevano avvizziti … La disperazione e l’orgoglio erano dipinti nei grandi occhi, e la chioma ondeggiante ricordava ancora quella d’un angelo di luce». Ma dov’è lo scandalo che il fantastico, secondo Caillois, rivelerebbe: «la lacerazione, l’ intrusione insolita, quasi insopportabile nel mondo reale»? Il desiderio di un’infanzia perpetua e perfettamente libera e amorosa – che lo stesso Beckford insegue in ogni circostanza del suo chiacchieratissimo viaggio sia che si tratti del piccolo Dom Pedro o del tripolitano adorabile Mohammed. Il premio è destinato unicamente al grazioso Gulchenrouz, il bambino «dagli occhi languidi e dalle dolci trecce». I due perversi amanti, adulti ormai, Vathek e la traditrice Nuronihar, vagheranno nella oscura caligine degli sterminati palazzi dell’Erebo tra una schiera tristissima di uomini e donne. Alcuni afflitti, altri rabbiosi che corrono senza meta come tigri ferite, tutti si evitano, e, benché in mezzo a una folla, ognuno erra come a caso, come se fosse solo. Ognuno con la destra sul petto per nascondere il cuore che brucia tra le fiamme. Ce n’è abbastanza per alimentare la cultura giovanile dei secoli a venire.

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