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«Desert Storm» vista con gli occhi dei palestinesi

«Desert Storm» vista con gli occhi dei palestinesiA Gaza un murales sull'Intifada del 1987 – LaPresse

Medio Oriente Crisi nel Golfo e guerra del 1991 avrebbero inferto un colpo pesante all’Intifada, la rivolta contro l’occupazione israeliana iniziata tre anni prima nel 1988. Il conflitto avrebbe contribuito ad affondare la possibilità di creare lo Stato palestinese indipendente nei Territori occupati proclamato da Arafat il 15 novembre 1988

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 15 gennaio 2021

Quando il 2 agosto del 1990 l’esercito iracheno lanciò la sua offensiva e in meno di 12 ore prese il controllo di Kuwait city, i palestinesi furono colti di sorpresa. Almeno la maggior parte di loro. Forse solo Yasser Arafat e gli altri dirigenti dell’Olp erano a conoscenza delle intenzioni di Saddam Hussein, data la vicinanza che avevano con il presidente iracheno, storico sostenitore della causa palestinese.

Tra la gente nei Territori occupati comunque l’appoggio all’Iraq fu quasi automatico. Saddam Hussein divenne l’eroe della lotta alle ambiguità delle petromonarchie arabe del Golfo, colui che sfidava Israele e il controllo che gli Stati uniti esercitavano sul Medio Oriente.

Non immaginavano i palestinesi che la crisi nel Golfo e la guerra nel gennaio 1991 avrebbero inferto un colpo pesante all’Intifada, la rivolta contro l’occupazione israeliana cominciata tre anni prima in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. E che avrebbero contribuito ad affondare la possibilità, per la prima volta dalla guerra dei sei giorni del 1967, di creare lo Stato palestinese indipendente nei Territori occupati proclamato da Yasser Arafat il 15 novembre del 1988. Soprattutto non potevano immaginare che la guerra del Golfo voluta dall’amministrazione Bush a capo di un’alleanza arabo-occidentale, di fatto avrebbe portato due anni dopo ai fallimentari Accordi di Oslo firmati da Israele e Olp.

Salutate come l’inizio della pace in Medio Oriente e della realizzazione della soluzione a Due Stati (Israele e Palestina), le intese raggiunte in terra norvegese si sono rivelate un disastro. A quasi trent’anni dalla loro firma contribuiscono a tenere chiusi in bantustan a tutti gli effetti i palestinesi sotto occupazione.

Nell’agosto del 1990 l’Intifada non aveva più la propulsione formidabile del suo inizio nel dicembre del 1987 che aveva affascinato il mondo generando un consenso diffuso e crescente alla causa palestinese. Le ragioni della rivolta però restavano sul tavolo delle diplomazie mondiali e gli esponenti della società civile palestinese a Gerusalemme Est e nel resto dei Territori occupati riscuotevano ancora un forte riconoscimento internazionale.

Arafat viaggiava per le capitali del mondo a rivendicare i diritti del suo popolo. Israele al contrario era sotto pressione, non riusciva a frenare i riconoscimenti dell’Olp che per decenni aveva descritto come una «organizzazione terroristica» e non la leadership che rappresentava i palestinesi. Persino i paesi stretti alleati dello Stato ebraico chiedevano ai dirigenti israeliani di rinunciare alla repressione della rivolta – che aveva morti, feriti e migliaia di prigionieri politici – e di aprirsi a un processo politico finalizzato a portare i palestinesi all’autodeterminazione.

Dal 2 agosto del 1990 le cose mutarono radicalmente. Yasser Arafat venne isolato perché alleato di Saddam Hussein. L’Olp fu privata dei finanziamenti dei paesi arabi che, dopo l’iniziale cautela della Lega araba, si schierarono quasi tutti – fece eccezione, con clamore, la Giordania di re Hussein – con l’ampia coalizione che l’amministrazione Bush, approfittando di una Urss indebolita e vicina al crollo, stava mettendo in piedi allo scopo di combattere il «mostro Saddam» che «minacciava il mondo».

I mezzi d’informazione occidentali rilanciavano a ripetizione notizie di armi potenti, anche di distruzione di massa, negli arsenali iracheni, pronte a colpire e a devastare anche l’Europa. L’immagine del popolo dell’Intifada, che con le pietre affrontava le jeep e i blindati israeliani, cominciò ad offuscarsi. Per i governi (e tanti cittadini) europei i palestinesi non erano più le vittime dell’occupante israeliano, bensì «gli amici di Saddam», il dittatore.

Non ci fu comprensione per i palestinesi che dicevano di stare con l’Iraq perché sfidava i paesi arabi e occidentali che con le loro politiche erano, direttamente o di fatto, dalla parte di Israele che pure non rispettava le risoluzioni internazionali.

L’attenzione mediatica nella seconda metà del 1990 si concentrò sul Golfo e con l’inizio della guerra totalmente sulla cronaca del conflitto. Non si diede peso all’annuncio dell’esercito israeliano che gli abitanti di Cisgiordania e Gaza sarebbero stati messi sotto coprifuoco per settimane, confinati nelle loro case per tutta la durata della guerra. Più attenzione fu dedicata dai giornali a quei palestinesi che di notte andavano sul tetto di casa a salutare i missili Scud che l’Iraq lanciava verso Tel Aviv.

L’Intifada non fece più notizia. Arafat e l’Olp nei successivi due anni furono messi nell’angolo e tenuti a distanza dalla conferenza multilaterale, del tutto irrilevante a causa dei veti posti al governo del premier israeliano Shamir, che l’amministrazione Bush organizzò a Madrid alla fine del 1991.

Un quadro che nel settembre del 1993 spinse o costrinse Yasser Arafat ad accettare, spaccando l’Olp, le condizioni capestro per i palestinesi previste dagli Accordi di Oslo. Si gridò alla «pace storica» tra israeliani e palestinesi e alla fine di uno dei conflitti più lunghi. La storia è andata in modo ben diverso. L’assassinio nel 1995 del premier israeliano Rabin a opera di un estremista ebreo, fece il resto.

Il fallimento di quelle intese segnò l’inizio nel 2000 di una seconda Intifada che ben pochi appoggiarono nel mondo anche per gli attentati suicidi commessi in Israele. I palestinesi sono fermi a trent’anni fa. La realtà è l’occupazione, con i palestinesi chiusi in città definite «autonome» e che sono solo bantustan.

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