Cultura

Dentro quelle vite mediorientali «appese a un filo»

Dentro quelle vite mediorientali «appese a un filo»Yemen di Farian Sabahi

MOSTRE Al Mao di Torino, la mostra fotografica di Farian Sabahi che si concluderà il 30 di giugno

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 21 marzo 2019

Resta poco alla collettività della Siria, dello Yemen, dell’Iraq, oltre alla memoria fotografica di giornalisti e videomaker. Volti, città, dettagli di luoghi distrutti che solo l’immagine impressa può preservare dal tempo e dalla distruzione umana. «Parlai delle mie diapositive a due fotografi milanesi. Portai loro una valigia piena: lì dentro c’erano i miei anni da reporter in Medio Oriente. Ne scelsero 125, che poi feci stampare su carta cotone».

FARIAN SABAHI racconta così la nascita della mostra – inaugurata ieri e aperta al pubblico da oggi al Mao, Museo di Arti Orientali di Torino, Safar: Viaggio in Medio Oriente, Vite appese a un filo. L’esposizione raccoglie gli scatti realizzati da Sabahi tra il 1998 e il 2003 durante i viaggi tra Libano, Iran, Yemen, Siria, Pakistan, Iraq, Emirati, Azerbaigian e Uzbekistan. «Lo spartiacque è il 2003, l’anno in cui nacque mio figlio: fu allora che smisi con i reportage più impegnativi». Di lì a poco le guerre avrebbero reso infrequentabili l’Iraq e la Siria. Le foto in mostra – tenute su da lenze per tonni e mollette da bucato – ritraggono bambini pakistani, donne yemenite e pescatori iracheni. Tra loro anche due scatti di un ragazzino seduto di fronte alle rovine di Palmira.

IL BAGAGLIO di immagini è frutto di ore e ore in auto lungo i confini degli Stati, «senza la protezione di una testata alle spalle, poiché ero freelance», spiega Farian Sabahi, che ha recuperato anche i suoi appunti di allora per fare di quelle pagine di taccuino le didascalie alle foto. Ripensando ai viaggi si sofferma sullo Yemen: «Se ci penso mi piange il cuore: lì ho conosciuto il padre di mio figlio che a Sanaa lavorava come chirurgo. Ho lasciato alcuni dei miei libri e non sappiamo nemmeno se la casa è ancora in piedi», racconta ponendo l’attenzione – come già Alberto Negri nella prefazione al catalogo della mostra – sulle responsabilità occidentali: «Se quel mondo non c’è più, è colpa nostra che abbiamo continuato a vendere armi, a corteggiare i dittatori per gli interessi petroliferi. Saddam Hussein è stato mantenuto al potere fin quando era comodo, finché faceva la guerra all’Iran negli anni Ottanta. Il pandemonio successivo è il risultato di un esercito (quello iracheno, ndr) lasciato allo sbando».

IL MONITO della giornalista, supportato dall’analisi geopolitica, trova continuità con la frase del poeta persiano Rumi, che chiude la mostra: «Io non sono dell’Est né dell’Ovest. Ho riposto la dualità e visto i due mondi come uno». I versi di Rumi – ve ne sono anche all’ingresso dell’esposizione – sono stati ricamati dalla giovane artista Ivana Safredda. E poi ancora un tappeto sonoro di voci che accompagnano il visitatore «dentro» la storia: dal Nobel turco per la Letteratura Pamuk a padre dall’Oglio, dal poeta siriano Adonis, all’attivista yemenita Nobel per la Pace Tawakkol Karman.
La mostra, che resterà aperta fino al 30 giugno, è anche l’occasione per Farian Sabahi di raccontare in tre incontri monografici che si terranno il sabato mattina, la letteratura mediorientale attraverso le sue protagoniste.

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