Dentro e fuori la redazione, i 50 anni del quotidiano comunista
#ilmanifesto50 Lettori e firme storiche del giornale si confrontano in una polifonia di voci sul manifesto di oggi e di domani. Un articolo realizzato dalla scuola di giornalismo della Fondazione Basso
#ilmanifesto50 Lettori e firme storiche del giornale si confrontano in una polifonia di voci sul manifesto di oggi e di domani. Un articolo realizzato dalla scuola di giornalismo della Fondazione Basso
Dietro il Palazzaccio, all’angolo tra piazza Cavour e via Crescenzio, c’è l’edicola di Diego Federici, 32 anni. Fra il traffico d’auto e il verso stridulo dei pappagallini sulle palme, la gestisce da tre anni, alternandosi con un’altra alla Balduina. Mediamente ogni giorno qui si vendono due copie del manifesto, il quotidiano comunista che proprio quest’anno celebra i 50 anni di vita coi propri lettori lanciando Mema, un progetto di intelligenza artificiale.
Da Diego il manifesto lo compra chi ha più di una trentina d’anni. «Sono persone che hanno palesemente fatto un certo percorso di studi. Gente che legge, studia, si interessa, compra anche testate internazionali. I lettori più grandicelli sono ancora affezionati, mi sembra una questione di tradizione, di sinistra storica». Diego è affabile, gli avventori che interrompono la nostra conversazione ne apprezzano la gentilezza. Apprezza l’inserto settimanale ecologista l’Extraterrestre, allegato al giornale il giovedì: «Quando ne hanno pubblicato la raccolta, me la sono presa. È un giornale di nicchia, il manifesto, bisogna dirlo», conclude.
Secondo gli ultimi dati di Accertamenti diffusione stampa, società che certifica tiratura e diffusione delle testate, sono oltre 14.000 i lettori quotidiani del manifesto. A un calo delle vendite cartacee sopperisce un incremento significativo delle copie digitali.
Tra questi nuovi utenti web c’è Silvia Arbicone, 83 anni, insegnante in pensione e attivista da una vita. «Dalle lotte ho sempre ricevuto risultati», sostiene convinta, seduta in quello che considera il suo salotto, una delle panchine nel parco di Villa Ada, area divenuta pubblica anche grazie al suo impegno. «Io e mio marito eravamo abbonati al manifesto, a lotta continua e al quotidiano dei lavoratori, e non ce ne arrivava uno», continua ridendo da dietro la mascherina, «adesso leggo on line gli articoli, per sceglierli e mandarli a mia nipote, che sta studiando cooperazione internazionale. Potrebbero valorizzare Alias ed Extraterrestre inserendo pezzi scelti tutti i giorni, come lettura finale». Villa Ada liberata è il risultato dell’impegno di decenni: gli espropri, i vincoli a non costruire, la raccolta delle 50.000 firme per aprirla e renderla pubblica. Mentre si rammarica per le fioriture anticipate avviandosi all’uscita sulla via Salaria, Silvia Arbicone confida il prossimo obiettivo: «Stiamo cercando di convincere il Comune a intitolare un largo a Giulio Regeni qui, davanti all’ambasciata egiziana».
Elisa Pappalardo, bibliotecaria da 10 anni, da quarantacinquenne pensa che il manifesto sia difficilmente migliorabile: ha un livello di approfondimento che manca ad altri giornali. Ne parla al riparo da una fitta pioggerellina, nel “triangolo culturale” della borgata del Quarticciolo, contesto che ama molto e dove in 50 metri si trovano la palestra popolare, il teatro biblioteca e lo spazio sociale Red Lab. «Oggi è giusto essere dissidenti rispetto agli attuali partiti di sinistra», sostiene, «il manifesto risponde a questa esigenza culturale. Finché ci sarà povertà al mondo, ci sarà bisogno di comunismo».
Di altro avviso sul giornale, letto dagli albori, è Ezio Partesana, filosofo di 58 anni che ha lasciato l’insegnamento alla Statale di Milano per scrivere saggi e tradurre per teatro e televisione. «Amo molto i titolisti del manifesto, sono sbarazzini», sostiene, «ma vorrei vedere meno foto di bambini piangenti, migranti. Destare scalpore, commuovere, indignare, penso che sia un’operazione quasi sempre di destra». Dal suo studiolo elenca con rinnovata ammirazione il gruppo storico con Magri, Rossanda, Menapace, Natoli, Parlato, Castellina, Pintor. «Raccogli teste così e mettile a fare una squadra di cricket sull’erba, e vedrai che squadra straordinaria ne viene fuori», immagina Partesana, che su tutti evidenzia gli scritti di Franco Fortini raccolti dalla manifestolibri. Rende merito alla testata per aver pubblicato anche le critiche di Fortini ai responsabili culturali del giornale, in cui li definisce “americanizzati e contenti”. Ciò che più rimprovera al quotidiano di oggi è non svolgere quel ruolo di avanguardia culturale di cui parlava Gramsci. «Vanno bene le campagne di sopravvivenza, però qualche riflessione in più dovrebbe esserci», conclude.
Un altro insegnante, scrittore e traduttore, Christian Raimo, ha una diversa opinione: «il manifesto è un quotidiano d’avanguardia. Nonostante sembri storico», sostiene l’assessore alla Cultura del III municipio di Roma, «è uno strumento di educazione dell’intelletto». Al fondo, un’intuizione, già dalla fondazione: a un quotidiano si richiede l’analisi del presente. Un giornale d’avanguardia anche per lo stile, l’autorialità delle firme, aggiunge Raimo. In un’epoca in cui le notizie si trovano facilmente in rete, è fondamentale avere giornalisti come interpreti, non solo testimoni dell’attualità. Questo il suo ragionamento: «Anche un algoritmo riesce a definire criteri di importanza ma non di significatività. Lo stesso vale per i giornali: molti raccontano solo storie interessanti anziché cercare di educare e discernere tra significativo e banale, tra significativo e ridondante, tra significativo ed emotivo». Raimo rilegge l’insegnamento gramsciano tra le righe del quotidiano comunista, e ne attualizza la portata: «in un panorama dove sembrano invisibili le diverse tonalità, si rende evidente l’importanza di un giornale come il manifesto che contrasta questa monocromia. Inoltre, la testata nasce come resistenza al totalitarismo, rivendicando la libertà di critica».
Angelo d’Orsi, già ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino, si definisce un collaboratore discontinuo del manifesto, che considera una voce fuori dal coro, tanto più in mancanza di giornali “alternativi”. «Come cittadino, in un quotidiano cerco notizie scelte e restituite in un certo modo. Trattandosi di un giornale di tendenza, cerco anche un punto di vista che non sia quello che troviamo mainstream», rileva d’Orsi, che aggiunge: «oggi tutti i giornali cartacei sono surclassati dal web, ambito dove il manifesto è molto cresciuto». Il quotidiano degli inizi gli ricorda l’Ordine Nuovo di Gramsci. Non solo, precisa d’Orsi, una testata con notizie che altri non davano, ma la voce diretta dei protagonisti delle lotte di quel periodo. «Lì trovavi con la stessa dignità l’analisi di Pintor o il pezzo sempre raffinatissimo della Rossanda, coi pezzi grezzi dei pastori sardi o dei contadini della Capitanata. Stimoli», conclude, «che sono serviti a mettere in circolo una serie di movimenti, idee forti che sono poi confluite nei grandi processi di trasformazione degli anni ’70».
Luciana Castellina è l’ultima fondatrice del manifesto tuttora militante. Il suo appartamento trabocca di cultura, esperienze collettive, pezzi di mondo. «È difficile fare i giornali oggi, i giovani non li leggono», esordisce, «non è loro abitudine». Spiega che il manifesto viene letto molto sul telefonino, e quando c’è un articolo interessante viene fatto circolare, ma deve essere sollecitato dai social. Un percorso da intraprendere prima, per Castellina: «potevamo scommettere su un vero giornale on line già venti anni fa, ma non c’è stato verso. Stranamente siamo state le più vecchie, io e Rossana, che ci siamo battute per questo».
Quanto all’opportunità di continuare a chiamarsi “comunisti”, oltre alla buona ragione, sostiene, che la storia dei comunisti italiani è stata fondamentale per la democrazia, Castellina vede una motivazione in più: «In sostanza la parola comunista vuol dire libertà e uguaglianza. Queste due cose nessuno è ancora riuscito a metterle insieme, né la rivoluzione francese, né la rivoluzione russa. O ci si rinuncia, o ci si continua a chiamare comunista, perché è un obiettivo storico». Il nome della testata è stato scelto da Magri, Pintor e lei, seduti su un muretto in fondo alla strada in cui ci troviamo: «Chiacchierando di fronte a casa di Rossana ci venne in mente questa cosa, il manifesto, e ci piaceva perché era un atto politico, non era un titolo teorico».
La redazione del manifesto, lasciata la sede storica di via Tomacelli, si trova oggi in un edificio che ospita diversi uffici, a Trastevere. Appena si entra al primo piano, dopo la colonnina col gel disinfettante, c’è lo scaffale per la posta a fianco della segreteria. Nel corridoio che dà accesso agli altri uffici, mezzi vuoti per il telelavoro, campeggia la “Olivetti linea 98” di Valentino Parlato, “il signor di Bric à Brac”, storico direttore del quotidiano.
«Il manifesto è un lungo paradosso», dice Matteo Bartocci, direttore editoriale e responsabile delle edizioni digitali. Uno dei paradossi odierni è la discrepanza tra la sua diffusione cartacea e quella in rete, dove si colloca all’ottavo posto in Italia, una stranezza per un giornale partigiano e senza gruppi editoriali alle spalle. «Per noi il web è un osso duro, ma sperimentiamo e cerchiamo di starci a modo nostro. Senza cookies, terze parti, rifiutando il tema dei big data, del tracciamento, della profilazione. Perdendo soldi e probabilmente lettori, perché questi algoritmi funzionano diabolicamente bene», ammette Bartocci.
Ciò non significa non innovare. Per i 50 anni il manifesto pubblicherà un’intelligenza artificiale dal nome Mema (memoria manifesta), sviluppata in base a lettura ed elaborazione di tutto l’archivio storico della testata attraverso reti neurali. «Mema, grazie all’interazione coi lettori crescerà, apprenderà nel corso del tempo. Con più persone interagirà, meglio sarà in grado di capire l’archivio», chiarisce Bartocci. Un archivio riacquistato dopo la liquidazione dalla nuova cooperativa editrice, scansionato e restituito alla comunità del manifesto in forma sia avveniristica che tradizionale. Infatti, nel corso di quest’anno dal sito si potrà anche vedere e scaricare la copertina del quotidiano in una data particolare, con un database ricercabile.
E i prossimi 50 anni? Bartocci ha le idee chiare: «il progetto editoriale del manifesto di domani è diventare una piattaforma. Un luogo dove non solo leggi dei contenuti, li commenti, li condividi, ma fai anche delle attività come eventi, crowdfunding, manifestazioni. Uno strumento digitale che ti consente di entrare a far parte di una comunità».
Tommaso Di Francesco, condirettore del manifesto, testimone e protagonista di tante stagioni del quotidiano, sottolinea la continuità dei progetti sul futuro con l’approccio da sempre innovativo della testata: «Noi siamo il primo giornale informatizzato d’Europa, dal 1984. L’idea della piattaforma porta avanti il discorso alternativo del manifesto di far crescere le forme organizzate della società civile». Consapevole che né tecnica né scienza sono neutre, le considera strumenti: «La società politica che non ha voce, è questa che ci interessa organizzare, per cui ci interessa lavorare, per cui ci interessa informare».
Questo articolo è stato realizzato nell’ambito dei corsi di formazione presso la Scuola di giornalismo della Fondazione Basso
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