Degenti e personale della Rsa Madonna dell’Arco senza tutele: «Tamponi in ritardo»
Il caso Colpiti dal virus un gruppo di pazienti (otto morti in un paio di giorni) e svariati dipendenti, soprattutto donne: «Solo l’avvio delle denunce da parte dei parenti delle vittime ha cominciato a smuovere le acque»
Il caso Colpiti dal virus un gruppo di pazienti (otto morti in un paio di giorni) e svariati dipendenti, soprattutto donne: «Solo l’avvio delle denunce da parte dei parenti delle vittime ha cominciato a smuovere le acque»
Le divise sono nere. Ma il look c’entra poco: sono buste per l’immondizia tagliate a metà, soluzione creativa accorsa al capezzale per la carenza di tute total body, quelle bianche immortalate dalla tv nelle corsie d’ospedale. Alla Residenza Sanitaria Assistenziale di Madonna dell’Arco, area vesuviana in provincia di Napoli, mancano diversi tasselli a garanzia di incolumità per dipendenti, pazienti e parenti. «Le divise bianche sono solo un miraggio. Abbiamo utilizzato a lungo le mascherine di tela, poi di carta, che proteggono poco naso e bocca. È avvenuta settimane fa, prima del boom dei contagi, la richiesta alla direzione della dotazione che ci spetta per svolgere al meglio il nostro lavoro. Inutilmente», spiega uno degli operatori sanitari della struttura che raccoglie circa 50 pazienti, età media 80-90 anni. In questo momento oltre metà dei degenti ha la febbre. Una parte attende il tampone. C’è paura tra gli operatori sanitari – si dicono senza tutele sindacali, che sarebbero anche poco gradite alla direzione – in giro per i corridoi sono rimasti in quattro, sono negativi al test per il Covid-19. Per ora. E attendono rinforzi.
La Rsa di Madonna dell’Arco è da giorni sotto la lente della cronaca locale e anche nazionale. Contagi in serie, denunce dei familiari dei pazienti morti e trovati positivi al Covid-19. Oltre cento tamponi tre giorni fa: negativi il priore dei Domenicani, padre Alessio Romano, colpiti dal virus invece un gruppo di degenti (otto morti in un paio di giorni) e svariati dipendenti della Rsa, soprattutto donne. «Mi hanno rovinato la vita – il flusso di parole via Whatsapp interrotto dal pianto di una delle operatrici sanitarie con il Covid-19 -, hanno trascurato le nostre richieste, ora rischiamo la vita».
Un’infermiera ha bussato alla porta del direttore sanitario della struttura, Pasquale Boemio, che fa le veci del priore, per chiedere il tampone per dipendenti e degenti. «E invece ci è stato detto, con toni piuttosto decisi, che non era il caso, di non creare inutili allarmismi. E solo l’avvio delle denunce da parte dei parenti delle vittime ha cominciato a smuovere le acque», spiega un altro degli operatori sanitari, che negli ultimi giorni hanno lavorato anche 24 ore in fila. I turni a tre, da otto ore, sono un ricordo. Gli operatori risultati positivi al coronavirus si trovano in quarantena nella vicina casa albergo. In precedenza avevano chiesto, se fosse saltato fuori qualche positivo, che fosse predisposto un servizio-ambulanza che consentisse loro di piazzarsi in quarantena a casa. Ci sono madri che rivedranno i figli tra almeno 15 giorni. Un clima di paura. Dove si muore di Covid-19, non solo per patologie come morbo di Alzheimer o per cause naturali. Dunque, morti, contagi. E test avvenuti in ritardo. Secondo il priore, come spiegato sulla sua pagina Facebook, le responsabilità sarebbero dell’Asl, che avrebbe cominciato a far tamponi su richiesta della Rsa, dopo la morte di tre pazienti. I dipendenti ci erano arrivati prima. Inutilmente.
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