Il passo è da record: la Gazzetta ufficiale conta 25 decreti legge firmati dal governo Meloni in sette mesi di mandato, più due decreti annunciati al termine del Consiglio dei ministri di quattro giorni fa ma non ancora pubblicati (per quanto urgenti). Ma non è di questo che il presidente della Repubblica ha voluto parlare ai presidenti di senato e camera, chiamati giovedì al Quirinale. Perché i presupposti delle legittimità del decreto legge sono la «necessità» e l’«urgenza» e quelli li valuta lui, Mattarella, quando firma per l’emanazione: da ottobre scorso ha dovuto farlo in media quattro volte al mese.

Su «l’abuso della decretazione d’urgenza» il presidente della Repubblica ha già richiamato il governo lo scorso 24 febbraio, confidando in «una inversione di tendenza». A La Russa e Fontana Mattarella ha sottoposto altre due questioni sui decreti legge, collegate ma di loro stretta competenza. La prima è la tendenza ormai inarrestabile delle camere (leggi, della maggioranza) a trasformare atti di legge per loro natura eccezionali e per precetto costituzionale omogenei in «veicoli legislativi», come li ha battezzati lo stesso governo, su cui far salire ogni genere di norma, piccola e grande. L’ultimo caso è quello del decreto Bollette che fosse stato per il governo doveva occuparsi anche di parità di genere negli appalti e caro affitti. Prima che la moral suasion ottenesse il passo indietro. Mattarella aveva avvertito proprio il 24 febbraio che i decreti non possono trasformasi in «omnibus del tutto disomogenei» e «veri e propri contenitori», come accade regolarmente durante l’esame parlamentare. Così che il presidente, che ha dato il suo via libera al decreto, si debba ritrovare poi per la promulgazione un atto differente, cresciuto a dismisura.

L’altro problema sollevato da Mattarella è quello del monocameralismo di fatto. I decreti legge arrivano in ritardo in un ramo del parlamento per la prima lettura, aspettano che la maggioranza si metta d’accordo per le modifiche, vengono approvati sul filo della scadenza dei 60 giorni, così che la seconda camera possa solo prendere o lasciare: anche la più piccola modifica farebbe decadere il decreto. Il segretario di +Europa Magi e i capigruppo di Montecitorio di Pd e Sinistra Verdi avevano pubblicamente sollevato il caso lo scorso 11 aprile con una lettera a La Russa, in cui lo invitavano a trasmettere alla camera il decreto 20 sull’immigrazione, prossimo alla scadenza. Il Quirinale è ovviamente a conoscenza del caso. La Russa aveva risposto che il calendario lo fa la conferenza dei capigruppo, non lui. Un modo per lavarsene le mani, perché tocca a lui far rispettare l’articolo 78 del regolamento del senato che dice che dopo 30 giorni il senato deve votare la legge di conversione per lasciare lo stesso tempo alla camera.

Mattarella evidentemente tiene molto a questi problemi. Nella lettera di febbraio (l’occasione era il Milleproproghe) aveva fatto capire che se i casi si ripetessero potrebbe essere costretto a rifiutare la firma di promulgazione. Meloni aveva promesso di metterci mano. Da allora ha emanato altri dieci decreti legge. E i segnali dalla maggioranza continuano a non essere buoni. Se il Quirinale con questo suo nuovo gesto ha richiamato il bisogno di cambiare, la ministra delle riforme Casellati ha commentato ieri dicendo che non c’è nulla di nuovo: «Questo richiamo Mattarella lo ha sempre fatto, il problema è che da troppi anni ci sono emergenze gravi che comportano il fatto che in un decreto si mettano norme che toccano emergenze varie». «Emergenze» come, ultimo caso, il rigassificatore a Ravenna che il governo vuole infilare nel decreto Alluvioni