David Murray: «Il jazz oggi? Sempre libero ma c’è troppa tecnologia…»
Musica Parla il grande musicista fondatore del World Saxopohone Quartet: «Penso che nel music business sia importante non soffermarsi solo nel compiangere il passato; è necessario guardare avanti»
Musica Parla il grande musicista fondatore del World Saxopohone Quartet: «Penso che nel music business sia importante non soffermarsi solo nel compiangere il passato; è necessario guardare avanti»
David Murray è storia viva del jazz; il fondatore del World Saxophone Quartet, nato a Oakland nel 1955, recentemente tra i protagonisti del festival Ai Confini tra Sardegna e Jazz a Sant’Anna Arresi. I suoi primi ricordi musicali, spiega risalgono all fanciullezza: «Andavo di pomeriggio in chiesa a Berkeley con mia madre, che suonava il piano ed andava lì per imparare ad usare i pedali dell’organo. Mi metteva giù e io cercavo di suonare con i piedi insieme a lei. Avevo circa tre anni.Quando ero ragazzino invece qualcuno mi portò a sentire un solo di Sonny Rollins: non avevo mai visto nessuno suonare in quella maniera. Il giorno dopo chiesi a mio padre di comprarmi un sassofono. Volevo un suono grande come il suo. Riempiva l’intero spazio dell’anfiteatro!».
Carriera multiforme e ai mille incontri, in particolare con un grande del calibro di Butch Morris: «Avevo 17 anni quando l’ho incontrato a Pomona, in California; aveva un furgone pieno di cose che tintinnavano e portava un cappello in stile vietnamita e le scarpe a punta alla turca. Iniziammo a suonare insieme, c’erano anche Arthur Blythe e Wilbur Morris, che era il fratello di Butch ed è stato il mio bassista per molto tempo. Butch Morris iniziò ad imbastire le sue conductions ( improvvisazioni dirette attraverso un sistema codificato di segnali, ndr ) all’interno della mia band, poi decise di abbandonare il suo strumento per dedicarsi completamente a quello». Un jazzista innnamorato delle musiche del mondo, ha suonato con artisti del Caribe, egiziani, gipsy: «Quando mi sono trasferito a Parigi nei 90 iniziai a fare workshops con musicisti come Doudu ‘Ndaye Rose e con musicisti creoli della Martinica. La prima esperienza fu in Senegal (Fo Deuk Revue, del 1997). La mia idea guida era che mescolare il jazz con questi suoni li rendesse più interessanti, ma non di certo in un’ottica fusion. Quando si arriva al jazz c’è una possibilità di fare qualcosa di buono, a patto di entrare in profondità nel loro mondo sonoro dei musicisti coinvolti. esia: la poesia è ritmo».
Cecil Taylor, Amiri Baraka, Coltrane hanno rappresenato i vertici del jazz, oggi forse irraggiugibili: «Penso che nel music business sia importante non soffermarsi solo nel compiangere il passato; è necessario guardare avanti e lasciare i musicisti suonare il più possibile davanti alle persone per acquisire la confidenza necessaria a diventare un’icona. Non che io lo sia, ma credo che ci siano molti strumentisti in grado di esserlo, hanno solo bisogno di un’audience».
Uno stile che si è evoluto nel tempo. Cos’è il jazz oggi?: «È libertá. Ogni giovane musicista deve fare i conti con i propri problemi, per poter riuscire meglio. Ci sono troppi musicisti ora, questo è il problema dei computer, è troppo facile fare un disco, magari qualcuno deve fare l’accalappiacani, l’ascoltatore, l’avvocato».
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