Dardust: «Cerco altre melodie ispirato da Eno, Reich e Debussy»
Digiti Dardust su Google ed esce una lista infinita di lavori a cui ha messo mano in varie vesti: produttore, arrangiatore, autore. Lui è riferimento di stelle (e stelline) del pop, importante nella crescita artistica di Mahmood, e poi Lazza, Angelina Mango. Dardust – vero nome Dario Faini – in realtà è molto, molto altro: la sua grande passione è il pianoforte e la sperimentazione di mondi lontani dal pop ma più vicini ai circuiti della classica. L’8 novembre per Artist First e Sony Masterworks è uscito il suo nuovo lavoro discografico Urban Impressionism. Questo è il suo quinto album, e se i primi tre (7, Birth, S.A.D.S Storm and Drugs) si muovevano sulle coordinate tracciate di tre capitali europee come Berlino, Reykjavik e Londra mentre il più recente Duality (2022) si concentrava sul Giappone, con il nuovo disco sembra quasi che voglia fare una sintesi. Un album meno roboante e più essenziale, a tratti quasi minimale.
Sorprende nel suo stile la capacità di mantenere un equilibrio perfetto tra pianoforte e elettronica, affiancandola all’attività di produttore pop. Come si riesce a far convivere questa apparente schizofrenia?
In realtà è un processo naturale e incosciente, e anche poco strategico, nel senso che ho bisogno di entrambe le cose. Io sono abbastanza onnivoro, nasco con il mio imprinting musicale, ma dall’infanzia sono sempre stato molto versatile e quindi riuscivo a passare dai Rondò Veneziano alla trilogia berlinese di Bowie e al pop dance di Madonna. Sono state passioni che ho voluto approfondire ed è questo che mi ha poi permesso di essere così versatile.
Questo album nasce da un’analisi delle strutture compositive di Brian Eno, Debussy e Reich.
Di Reich ho sempre amato lo studio dei loop, ovvero le ripetizioni dei pattern. E poi è vero ci sono influenze di Debussy e Eno Ma ho voluto mettere in risalto anche la melodia, quella tipicamente italiana che fa la differenza.
A ispirare il disco le geometrie architettoniche delle periferie urbane, tanto che ogni brano – in tutto tredici – è accompagnato da video girati a Parigi in luoghi brutalisti da Les Arénes de Picasso a Viaduc de Montigny.
I brutalisti hanno rivoluzionato l’arte, modificando i canoni della pittura dei tempi, perché fino ad allora i soggetti erano sacri o mitologici. Quando sono andato a Parigi ho voluto visitare le periferie e approfondire il brutalismo, forse perché vengo dalla provincia, da un piccolo borgo vicino Ascoli Piceno. Ho sempre sentito questa sorta di marginalità di essere un po’ tagliati fuori dal mondo, in un ambiente poco stimolante. E questo alimenta frustrazione che puoi colmare in tanti modi: chi la colma in maniera sbagliata e chi con l’immaginazione. E dalle periferie sono arrivati tanti linguaggi a livello artistico.
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Lazza, tra urban e rap il lato oscuro della famaOggi assistiamo all’emergere sempre più forte di una corrente di un certo pianismo contemporaneo che definiamo per comodità new classical. In tempi non sospetti Dardust l’aveva già intercettata.
Ho iniziato nel 2013. Mi piaceva l’idea ma in verità è stato tutto molto spontaneo. E ho giocato sui contrasti, ma è venuto naturale perché era quello che volevo fare. Era il mio mondo, era quello dove vedevo che a livello emozionale mi sentivo perfettamente a casa. Sentivo che – lavorando sul pop, era come se fossi «invaso» dalla parola. Ci sono delle melodie bellissime che poi con il testo in italiano prendono un’accezione totalmente diversa. Quindi toglierle dalla parola mi sembrava un atto di libertà incredibile.
Una laurea in psicologia. Le è servita anche in ambito musicale?
Sicuramente mi è servita sotto tanti punti di vista. Il produttore può essere simbolicamente idealizzato come una sorta di analista che aiuta l’artista a indagare sulle proprie dinamiche per trasformarle in maniera creativa. E quindi si crea un rapporto quasi terapeutico, che a volte regala tante bellissime scoperte in ambito artistico come in…terapia.
Per molto tempo è stato il deus ex machina di una certa scena pop italiana, ma da un paio di anni a questa parte ha rallentato fortemente. Troppa pressione per i numeri o a un certo punto, subentrando la routine, la cosa cominciava a farsi meno interessante?
Stava diventando una routine. Non so se l’analogia con le dipendenze è esatta e elegante, però vedo che quando hai a che fare con la stessa materia, qui siamo in ambito di materia di osservazione e quindi per emozionarti, per godere, per essere soddisfatto, devi aumentare sempre il tiro entrando in un meccanismo. C’è chi alza sempre l’asticella delle aspettative in maniera incredibile. Per quanto mi riguarda a un certo punto si è alzata in maniera iperbolica, esponenziale ai massimi livelli e quindi mi sono trovato in un calendario di tante session in cui il mio livello di appagamento, di soddisfazione, di coinvolgimento emotivo era sempre meno.
Il tour inizierà con due eventi speciali: il 12 marzo al Pirelli HangarBicocca a Milano, nella Sala Palazzi Celesti, con le torri in cemento armato e piombo del pittore e scultore Anselm Kiefer, e il 14 marzo presso La Nuvola di Roma, l’ opera di Massimiliano Fuksas. E poi dieci tappe in altrettante città europee.
I due live italiani li ho voluti perché volevo creare una performance fuori dal classico circuito dei concerti. Mi piaceva l’idea di portare lo show sul palco solo con un trio d’archi e con il mio compagno di viaggio artistico Danny Casagrande. Poi ci sarò io al piano e con le tastiere elettroniche, e creeremo a Roma e Milano due show diversi fra loro. Non sul lato musicale quanto sul lato visivo.
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