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Dal Libano al Cile ribellarsi è giusto, ma non basta

Dal Libano al Cile ribellarsi è giusto, ma non bastaSantiago del Cile, 3 novembre, un manifestante scrive con la vernice spray "assassini" su un mezzo delle forze di sicurezza – Afp

Movimenti Quelli "vecchi" portavano con sé una capacità di agire politicamente nelle fasi successive a quelle iniziali, e per lunghi periodi, che ai "nuovi" sembra mancare

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 5 novembre 2019

Le piazze sono piene a Beirut come, a migliaia di chilometri di distanza, a Santiago del Cile, dove anche ieri ci sono stati violenti scontri. I giovani di Barcellona sfidano la polizia esattamente come i loro coetanei a Hong Kong, dove il cosiddetto Movimento degli Ombrelli ha fatto ritirare il progetto di legge sull’estradizione degli imputati verso la Cina continentale ma ora continua la sua mobilitazione. Pochi mesi fa manifestazioni popolari hanno costretto il presidente del Sudan Omar al-Bashir a lasciare il potere, mentre mobilitazioni analoghe in Algeria hanno posto fine al regime di Abdelaziz Bouteflika.

Non dimentichiamo, inoltre, che «In Africa dilaga da anni la protesta sociale contro i regimi corrotti ma resta incanalata in ottiche intestine, se non etniche, residuo del tardo-colonialismo che continua a dominare, oppure, come nel Sudafrica che fu di Mandela, assume connotati perfino xenofobi», come ha scritto pochi giorni fa Tommaso Di Francesco su queste colonne.

Questi movimenti hanno obiettivi diversi ma anche alcune caratteristiche simili, per esempio il fatto di essere nati in brevissimo tempo e di aver sfruttato al meglio le possibilità di comunicazione e coordinamento offerte dai social media. Per capire quanto succede in queste ore sarà utile guardare al lavoro di Zeynep Tufekci, una sociologa della University of North Carolina, negli Stati uniti, che ha analizzato in particolare le proteste di piazza Tahrir al Cairo, di Occupy Wall Street a New York e del parco Gezi a Istanbul, qualche anno fa.

Nel suo libro Twitter and Tear Gas, Tufekci sottolinea che in piazza Tahrir al Cairo, nel 2011, la gestione di tutte le forniture mediche (quanto mai necessarie, data la violenza della repressione governativa) era assicurata da soli quattro volontari, due dei quali non erano neppure in Egitto: usavano Twitter e Google.doc. La soluzione di innumerevoli problemi pratici, che per movimenti privi di connessioni online avrebbe richiesto il lavoro di centinaia di persone per settimane o mesi, diventava possibile in tempo reale.

Il punto che qui ci interessa è il fatto che il paziente lavoro di organizzazione dei “vecchi” movimenti portava con sé una capacità di agire politicamente nelle fasi successive a quelle iniziali, e per lunghi periodi, come avvenne per il movimento dei Diritti civili negli Stati uniti. Al contrario, questi nuovi movimenti trovano difficile cambiare tattica e obiettivi secondo le necessità del momento perché mancano sia della cultura che delle infrastrutture per prendere decisioni collettive.
In tutti i casi che abbiamo citato, i partecipanti hanno adottato forme di decisione assembleari e rifiutano di avere leader riconosciuti o portavoce e rappresentanti che possano negoziare con le autorità sulle richieste che hanno scatenato la protesta, come la corruzione in Libano o l’aumento del prezzo dei trasporti pubblici in Cile. Questo sicuramente favorisce la partecipazione di cittadini in precedenza estranei alla politica, oltre che di persone molto eterogenee come condizione sociale, formazione culturale, fede religiosa.

Nello stesso tempo, però, l’incapacità di muoversi tatticamente di fronte alla reazione delle autorità si dimostra un ostacolo molto difficile da superare: non sappiamo come finirà a Hong Kong ma, negli anni scorsi, l’unico successo dei grandi movimenti di piazza fu quello del Cairo dove i militanti, aiutati da una rete di sindacati e dall’intensa ed efficace copertura della rete televisiva Al Jazeera, riuscirono a far dimettere Hosni Mubarak, ma non a continuare la propria azione e a consolidare l’effimero momento democratico che l’Egitto stava vivendo. Gli altri movimenti furono sconfitti abbastanza rapidamente con l’eccezione della Tunisia, mentre in Francia i “gilet gialli”, dopo aver bloccato un anno fa l’aumento del prezzo dei carburanti voluto da Macron, sembrano aver esaurito la loro spinta sugli altri obiettivi.

In Europa, il movimento più interessante, oggi, sembra essere Extinction Rebellion, una galassia di piccoli gruppi nata in Gran Bretagna nel 2018 ma capace di organizzare spettacolari azioni di massa come l’occupazione di Piccadilly Circus e Waterloo Bridge per vari giorni, un anno fa. Extinction Rebellion si è rapidamente diffuso anche in altri paesi, con parole d’ordine semplici e una comunicazione efficace sul tema del pericolo imminente di un collasso ecologico, ma deve ancora dimostrare la capacità di strappare ai governi provvedimenti concreti e impegni precisi su un tema così vasto e complesso. Ribellarsi è giusto ma non è sufficiente.

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