Il 30 gennaio 2020 veniva confermata la positività al coronavirus di una coppia cinese in viaggio a Roma. La coppia se la vide brutta, ma grazie alla terapia intensiva dello «Spallanzani» riuscì a cavarsela. Fu il primo incontro tra il coronavirus e il nostro paese. Lo Spallanzani lo ha voluto ricordare con una cerimonia a cui sono stati invitati i medici dell’ospedale reduci da due anni in prima linea, i rappresentanti dei ministeri della salute e degli esteri e pure gli ottoni della banda dei carabinieri. A fare gli onori di casa, il direttore dell’ospedale Francesco Vaia e l’assessore alla salute del Lazio Alessio D’Amato. «Due anni fa c’era nel Paese un sentimento di sgomento, la gente era giustamente impaurita» ha detto Vaia, che si insediò allo Spallanzani pochi giorni prima dell’arrivo del virus. Lo «Spallanzani» però si fece trovare pronto quando arrivò la chiamata del 112 dall’hotel in cui alloggiavano i turisti. «Il mezzo che arrivò era con il biocontenimento perché avevamo già predisposto un protocollo operativo» ha ricordato D’Amato. «Dopo qualche ore la positività poi l’isolamento del virus qui allo Spallanzani». Erano i giorni degli «angeli», come furono paternalisticamente soprannominate Maria Rosaria Capobianchi, Concetta Castilletti e Francesca Colavita, le tre ricercatrici che, prime in Europa, riuscirono a studiare il virus.

All’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive (Inmi) – questo il nome istituzionale dello «Spallanzani» – avevano visto di peggio: Tbc, Sars, Hiv, Ebola sono tutti passati di qui. L’Inmi è un centro di riferimento per la ricerca e la cura sulle malattie contagiose, in Italia e fuori. Già nel 2009 l’Oms lo ha designato come «centro collaboratore» italiano. «Le mascherine si portavano anche prima del Covid» racconta uno dei camici bianchi dell’Istituto. «Sapevamo come evitare che ci contagiassimo tutti e lasciassimo soli i pazienti».

Anche se il virus è stato arginato, l’Istituto in questi due anni si è svuotato lo stesso. Nei due anni della pandemia, la lista di medici, ricercatori e manager che hanno lasciato lo Spallanzani per altre destinazioni è lunghissima. Fuori gli «angeli» Castilletti e Capobianchi, il capo-dipartimento clinico Nicola Petrosillo, il direttore della microbiologia Antonino Di Caro, la microscopista Roberta Nardacci. Via anche la direttrice generale Marta Branca e il direttore amministrativo Roberto Noto. Se n’è andata anche la direttrice degli infermieri Alessia De Angelis, che allo Spallanzani ha effettuato la prima vaccinazione anti-Covid in Italia. Soprattutto, ha abbandonato lo Spallanzani il principale artefice della sua eccellenza, il direttore scientifico Giuseppe Ippolito. Oggi il suo ufficio è al ministero della Salute.

Del morbo misterioso che ha causato l’esodo nessuno vuole parlare, ma qualcuno si fa scappare un indizio: «allo Spallanzani si fa tanta politica». L’emergenza e i riflettori hanno attirato allo Spallanzani interessi scientifici, sanitari e anche politici. Tanti nell’istituto non hanno avallato il ruolo assunto dall’Istituto nella gestione della pandemia.
I contrasti tra politica e ricerca erano iniziati già a inizio 2021, quando i ricercatori dello Spallanzani avevano dimostrato che i 600 mila test salivari acquistati dalla Regione (per 5 milioni di euro) non erano abbastanza accurati per essere utilizzati nei bambini. Poi, iniziata la fuga dei cervelli, da direttore generale ad interim Vaia ha avuto mano libera sulla gestione dell’istituto, dando vita a scelte poco comprensibili dal punto di vista scientifico. Come quella sul vaccino «italiano» sviluppato dalla Reithera di cui i ricercatori dello Spallanzani avrebbero dovuto coordinarne la sperimentazione. Ma a cui Vaia, con l’avallo di D’Amato, non ha mai dato il via libera al reclutamento dei volontari.

La scelta su Reithera è ancor più incomprensibile, se la si confronta con il credito concesso da Vaia e D’Amato al vaccino russo Sputnik, mai autorizzato dall’Ema. I due volevano persino avviarne una produzione nel Lazio. Ancora nei giorni scorsi lo Spallanzani ha pubblicato uno studio – finanziato dal fondo russo proprietario dello Sputnik e firmato dallo stesso Vaia – secondo cui il vaccino sarebbe superiore a Pfizer nel contrasto a Omicron. Sul Foglio, il biologo Enrico Bucci lo ha giudicato «del tutto inutile», con dati «privi di significato»: non un fiore all’occhiello per un istituto del livello dello Spallanzani.

Ma il gioco di sponda tra Vaia e D’Amato continua. D’Amato è lanciatissimo verso la successione a Nicola Zingaretti alla presidenza della Regione, forte anche della riuscita gestione della pandemia nel Lazio sul piano della comunicazione. In questo, avere lo Spallanzani dalla propria è decisivo. Dal canto suo, il medico è divenuto uno dei «camici bianchi» più popolari in televisione e sui social. E non può permettersi contrasti con il suo assessore di riferimento. La posizione di direttore generale «ad interim» assunta da Vaia dopo l’addio di Branca, potrebbe diventare a breve definitiva. La Regione, infatti, ha appena pubblicato il bando per arruolare il successore della precedente Dg e la nomina spetterà proprio a D’Amato. Sulla carta, il sessantasettenne Vaia ha superato il limite di età per concorrere. Ma in suo soccorso è giunto un emendamento di Italia Viva che, in una legge sulle capienze degli stadi di dicembre, ha alzato il limite massimo per diventare direttore generale proprio a 68 anni. Ora la strada è spianata. La scienza, pure.