Da Salonicco a Sid, i quaderni di frontiera di un fotografo
INCONTRI Intervista a Matthias Canapini sul suo «Il gioco dell’oca» (Prospero edizioni). Il libro sarà presentato oggi a Fano nell’ambito di Passaggi Festival
INCONTRI Intervista a Matthias Canapini sul suo «Il gioco dell’oca» (Prospero edizioni). Il libro sarà presentato oggi a Fano nell’ambito di Passaggi Festival
Nato a Fano nel 1992, dal 2012 Matthias Canapini viaggia con taccuino e macchina fotografica per raccontare storie: Balcani, Caucaso, Asia, Africa occidentale, Est Europa. Negli ultimi dieci anni ha attraversato i campi sfollati della Siria, le retrovie del conflitto in Donbass, l’eredità dell’Agente Arancio (defogliante chimico) sganciato durante la guerra del Vietnam, l’appennino centrale colpito dai recenti terremoti e con Il gioco dell’oca. Quaderni di frontiera (Prospero editore, pp. 342, euro 15) le rotte dei migranti lungo le frontiere d’Europa. Il libro sarà presentato a Passaggi Festival a Fano oggi alle ore 18.30, e in parallelo, fino a domani, sarà allestita presso la Memo Mediateca Montanari una mostra fotografica di suoi venti scatti dal titolo Il volto dell’altro.
Nella prefazione a «È così la vita», Giacomo Scattolini dice che «Matthias viaggia da solo in modo “lento”, con autobus treni e navi. Zaino in spalla e alloggi di fortuna. Evidentemente il gene del nomadismo e della curiosità per capire come gira il mondo non è ancora estinto nell’essere umano. Per fortuna». Come è nata la sua passione per le storie e le persone ai margini?
Il seme del viaggio in qualche modo c’è sempre stato in casa: ricordo, già all’età di cinque anni, lunghe scorribande in automobile nell’Europa degli anni ’90, con i miei genitori e i miei due fratelli maggiori. Essendo il più piccolo spesso viaggiavo nel baule, sopra valigie e sacchi a pelo. Durante l’adolescenza mi sono interessato a letture come Terzani, Kapuscinski e altri grandi viaggiatori. Crescendo, la curiosità di scoprire come girava e gira il mondo è rimasta: a 19 anni, subito dopo il diploma, sono partito per la Bosnia, con l’intento di realizzare un primo reportage sui campi minati intorno alla città di Sarajevo. Da allora, viaggio esclusivamente per ascoltare, testimoniare, raccogliere storie e per poi condividerle attraverso libri e mostre fotografiche. Interessarmi ai «senza voce», più che una scelta, è stata un’esigenza. Il mio è un timido tentativo per accendere i riflettori su storie minuscole che parlano di fatica e lavoro, vergogna e fragilità; testimonianze in grado di raccontare grandi avvenimenti.
Cosa si narra quindi ne «Il gioco dell’oca»?
Nel novembre 2015 ho viaggiato con una famiglia afghana lungo la rotta balcanica, partendo da Salonicco e arrivando a Sid, sul confine serbo-croato. Erano i giorni in cui l’Europa bloccò tutti i migranti economici e decise di far passare solamente i profughi di guerra «ufficiali». Quell’esperienza è stata un viatico per riprendere il tema delle frontiere ben tre anni dopo, nel maggio 2018. Con Il gioco dell’oca ho tentato di capire e raccontare cosa accade lungo le frontiere, da chi sono composti i principali flussi migratori, perché singoli individui e comunità si mettono in cammino verso l’Europa. È un omaggio alla frontiera come luogo di passaggio, tant’è che non ho raccolto solo storie di profughi, migranti o richiedenti asilo ma anche di attivisti, cittadini solidali, infermieri, operatori. I luoghi toccati sono molteplici: Claviere, Ventimiglia, il passo del Brennero, Calais, Lampedusa, le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, Senegal, Tunisia, la rotta balcanica (in senso opposto rispetto al tragitto compiuto nel 2015). Il titolo è pensato per non utilizzare termini retorici e ridondanti quali profugo, confine, migranti etc. In maniera amaramente ironica ho scelto Il gioco dell’oca poiché il viaggio di tante persone incontrate ricorda proprio il celebre gioco in scatola: lanci i dadi, ti affidi alla sorte, ogni tanto vieni rispedito al punto di partenza e ricominci da capo.
Che idea si è fatto in questi anni delle politiche italiane e mondiali riguardo le migrazioni (e la loro gestione/contenimento)?
Camminando lungo i confini ho percepito la storia del mondo, la memoria collettiva di cui facciamo parte: secoli di passi, polvere, pianti, speranze. Tutto torna, ogni cosa è connessa. Il gioco dell’oca è il progetto che più mi ha aperto gli occhi e fatto abbracciare l’altro (e l’altrove) profondamente. Ciò che ho visto e testimoniato temo che accada a livello mondiale, poiché cambiano le dinamiche ma la prevaricazione è sempre presente, così come un proprio «sud» da tenere a bada. Diminuire i flussi migratori è lo slogan dei governi europei. Stanno militarizzando capillarmente le frontiere cacciando sempre più indietro i migranti. Lo scopo dell’Ue è quello di esternalizzare i propri confini, delegando il controllo ad altri Paesi. La frontiera europea si moltiplica così in molte micro-frontiere. Ora l’Europa finisce realmente a Tripoli, Zarzis, Zouerat. L’Italia e l’Europa continuano a rafforzare la collaborazione con la Libia, l’Egitto, la Tunisia o la Turchia subappaltando il compito di sorveglianza.
Come fotografo, in che modo la narrazione scritta e quella per immagini si intersecano nella vita e nelle opere?
L’idea di stampare libri fotografici (sebbene la casa editrice si occupi di narrativa) nasce dalla voglia di raggruppare gran parte degli scatti che ritraggono, negli anni, esattamente le genti di cui racconto negli appunti; è dunque un intreccio continuo di volti e storie, dai contadini vittime delle mine antiuomo in Cambogia agli scontri in piazza Maidan a Kiev. Io scatto di pancia, di cuore, d’istinto. Non conosco tecniche specifiche o filtri particolari: le mie immagini emergono dal vissuto, dall’incontro vissuto.
In «È così la vita» narra storie partigiane e contadine, quando e come ha fatto quel viaggio?
L’idea di un viaggio lento lungo le Alpi e l’Appennino ha preso consistenza lontano da casa in realtà. Era l’ottobre 2015 e mi trovavo in Birmania sulle tracce dell’ultima donna giraffa (chiamata anche Padaung: “collo lungo” nella lingua autoctona) del villaggio di East Kha Pu. Incontrandola nel buio della sua capanna, mi sono trovato di fronte ad un mondo destinato all’oblio, una memoria in procinto di scomparire. Man mano si è fatto largo in me un pensiero: mia nonna Maria, che all’epoca aveva 95 anni, quando sarebbe morta avrebbe portato con sé le immagini e i ricordi dell’occupazione nazi-fascista, la Liberazione di Fano da parte della Divisione Carpazi (Polacchi), ma anche alcuni proverbi, ricette, canti. Capii che cercando lontano avevo denigrato le radici. Arrivando ai confini del mondo avevo smarrito la terra sotto ai piedi, la memoria di cui facciamo parte. Tornai a casa con maggior consapevolezza e feci metaforicamente amicizia con Nuto Revelli e Mario Rigoni Sterni. È così la vita parte da lì: dall’esigenza, ancora, di ascoltare le storie di staffette, partigiani, sopravvissuti a eccidi nazi-fascisti, ma anche contadini, giocatori di bocce, ballerini di liscio. Non si dovrebbe mai avere fretta di fronte alla saggezza dei nonni.
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