Dopo il successo dei suoi piani-sequenza sui cortei medievali di anime morte (La famiglia di Arlecchino, Donzelli 2021) Massimo Oldoni, uno degli ultimi grandi interpreti di testi del medioevo latino in quanto letteratura, ci offre il suo contributo al dilagante filone di studi sulla donna nel medioevo, che da qualche decennio vede proliferare studi e nascere centri di ricerca in tutto il mondo (l’ultimo, Medioeva, a Siena-Roma Sapienza-Tours). È come se la progressiva erosione del luogo comune antimedievale avesse improvvisamente aperto gli occhi sul numero di donne di potere e di donne scrittrici attive nel Medioevo, altissimo rispetto ad epoche precedenti e successive, accendendo un faro su ciò che era sempre stato accessibile e che i cliché impedivano di riconoscere. In Essere Marta nel Medioevo La donna, le guerre, gli amori (Donzelli editore «Saggi», pp. XIV-320, euro 35,00) Oldoni riprende alcuni dei suoi cavalli di battaglia dipanando i fili che legano figure talvolta già raccontate in contesto e taglio differenti o mettendone in rilievo altre che, nella giusta sequenza, acquistano finalmente il loro senso più pieno.
Il filo è quello della Marta evangelica (Luca X, 38-42) che accoglie Gesù in casa e si impegna attivamente a preparargli un’ospitalità decorosa mentre la sorella, Maria, si ferma apparentemente inoperosa ad ascoltare le parole del Maestro e coglie così la «parte migliore», diventando simbolo della vita contemplativa, cioè di studio, mentre Marta resta la donna d’azione inferiore per status alla sorella ma altrettanto necessaria. Come suo contraltare moderno, forse un po’ estrinseco alla materia del libro ma molto caro all’autore, Oldoni propone la Teresa Batista di Jorge Amado: donna di sofferenza, lotta, sconfitta e, diremmo oggi, vitalistica resilienza. Il paradigma della Marta evangelica, più esile e dunque più adattabile, consente a Oldoni di valorizzare il lato intraprendente, imperativo, reattivo e spesso dominante di moltissimi personaggi di donne letterarie oppure storiche, ma di una storia che diventa comunque narrazione e dunque letteratura.
Apre il primo set Radegonda (518-587), sposa bambina del sovrano franco Clotario I che aveva massacrato il suo popolo, i Turingi: dal carcere coniugale, che tuttavia le aveva consentito una formazione, la regina si libera tramite una forte devozione religiosa e una fuga a Poitiers, dove fonda un monastero consacrato alla Croce e dotato di una regola femminile. Lì Radegonda rimane sempre, respingendo sia i richiami e gli allettamenti del marito, al quale impedisce perfino di mettere piede nel monastero, sia l’ostruzionismo del vescovo locale (Meroveo): vi pratica una vita di ascetismo spietato sul proprio corpusculum e di generosità quasi smodata per poveri e bisognosi, impegnandosi allo stesso tempo nella stesura di lettere che chiedevano ai sovrani in guerra di interrompere i massacri. Venanzio Fortunato, il poeta che ne fu il primo biografo e che le dedicò eleganti elegie di amor spiritualis, la definisce per questo nova Martha. Oldoni misura la grandezza di questa donna, il cui ritratto fu poi completato da una biografa-donna, Baudonivia, attraverso l’analisi della lettera testamentaria in cui Radegonda traccia alle consorelle presenti e future e alle autorità locali la linea politica, assistenziale, religiosa e organizzativa dell’istituzione da lei fondata e che, dopo la sua scomparsa, fu messa alla prova da una serie di ribellioni e complotti di nobildonne insofferenti del regime monastico o semplicemente del governo di una particolare badessa e pronte a tutto per liberarsene: calunnie, denunce, scandali a sfondo sessuale, assassinii.
Il mondo delle donne di potere nel regno dei Franchi, implacabili nel difendere se stesse e il ruolo politico dei propri figli, è dipinto in toni cupi dallo storico coevo Gregorio di Tours e questa truculenza è passata con immutato orrore nelle tragedie francesi di Lemercier come in quelle italiane di Carlo de Rege di Donà e di Napoleone Giotti, ma soprattutto nelle pagine di Thierry e Michelet e quindi nell’immaginario moderno, anche se è oggi in fase di rivisitazione grazie a una lettura delle «fonti» come documenti di parte. Di queste donne «forti» Oldoni mette in luce la cinica politica, che nelle narrazioni si trasforma in strategia poetica, dell’utilitas: «Sono venuta da te perché ho capito la tua utilità (…) Ma bada: se io avessi conosciuto un altro uomo più utile di te, anche abitante al di là del mare, sarei andata fin laggiù per stare con lui» dice a suo marito Basina regina dei Turingi, madre di quel Clodoveo che porterà i Merovingi nell’alveo del cattolicesimo e nel centro della storia europea. Così si manifestano, con sfumature diverse e un’alternanza a noi incomprensibile fra religiosità di superficie e crudeltà come metodo di governo, spietato calcolo politico e autocoscienza materna. Clotilde non esita a dichiarare preferibile l’uccisione dei propri figli al taglio dei loro capelli, che secondo le consuetudini franche li avrebbe resi inabili alle cariche regali, mentre Deoteria non ha scrupoli a far chiudere la figlia in un carro buttato giù da un ponte piuttosto che subire la concorrenza della sua bellezza nel letto del re, diventato nel frattempo suo marito. Oldoni, al di là dei giudizi morali impliciti nella fonte ecclesiastica, mette acutamente in luce il titanismo epico che fonda la loro autocomprensione.
Ma le Marte «che accolgono e che uccidono» non sono l’unica tipologia emergente da questa galleria. Un tentativo di introspezione nelle pieghe di un’anima imprendibile è il bel capitolo su Dhuoda, moglie di Bernardo marchese d’Aquitania (inizio del IX secolo), che compone per il figlio Guglielmo una sorta di manuale di comportamento «cavalleresco». Oldoni scava sia nei contenuti didattici di un’opera così singolare sia, e soprattutto, nelle espressioni dell’autrice che proclama la propria debolezza («indegna e labile come l’ombra», «fragile ed esiliata», assediata da «torme di affanni», «incapace di preghiera») ed elabora immagini di giochi e di specchi inaspettate perché fuori standard, attingendole a un’idea della biblioteca mentale come memoria dell’oralità.
Qui l’utilitas personale è estesa a funzionalità nel tempo proprio e nel proprio ambiente (per il figlio, la corte imperiale) e a «religione della paternità» (Riché) come fedeltà a chi fornisce nome e casato, nell’etica nuova che riscatta la feritas merovingia e si evolverà in etichetta dell’aristocrazia europea. Ma viene proclamata sotto l’ombra di una disperazione personale, della malattia di un’anima che solo quel libro al figlio lontano tiene ancora in vita, affidandogli alla fine il proprio epitafio.
Le altre Marte di Oldoni sono le regine longobarde di Paolo Diacono o del Chronicon Salernitanum, prive perfino della religiosità di superficie delle donne merovinge (salvo Teodolinda) o Adelaide, che con matrimoni diversi era diventata duchessa di Svevia, marchesa di Monferrato e infine contessa di Savoia, suocera di Enrico IV e ago della bilancia di fragili alleanze imperiali. Oldoni ricama sull’appellativo, formulato per lei da Benzone d’Alba, di admirabilis balena che, fuori dai nostri canoni semantici, vuole significare la sua regalità e la sua inafferrabilità politica, nei cui segreti queste pagine cercano, con dichiarate esitazioni, di penetrare spremendo oltre il massimo i pochi documenti disponibili e perfino i ritratti di balene dei bestiari medievali.
La parte finale della galleria è dominata dall’inevitabile Matilde di Canossa, «Terra di Mezzo» fra papato e impero, il cui personaggio letterario viene esplorato attraverso le reticenze del poeta biografo Donizone, «piccolo grande regista di un indimenticabile teatro storico» che si ferma per qualche verso anche su una «quinta protomanzoniana»: la scena di fuga di Adelaide e un’ancella, insieme al prete Martino, sulle barche di un lago. Il montaggio quasi cinematografico del racconto, la cui evidenza è una delle acquisizioni di questo saggio, eleva Donizone, finora marchiato come figura letteraria di secondo piano, a «scrittore di talento».
I personaggi finali, al di là di poche ma innovative pagine dedicate alle straordinarie donne della Northumbria del VII e VIII secolo o alle Clarisse di Puglia del XIV, sono un debito pagato al canone: Cristina da Pizzano, autrice della Città delle Dame e avversatrice della misoginia aristotelica cui si appellavano alcuni intellettuali dell’epoca (il Liber lamentationis di Mateolo) e «la silente Eloisa», amante segreta e mai pentita del filosofo Abelardo, causa della sua evirazione da parte del proprio tutore e della loro successiva separazione in monasteri lontani, ma rievocatrice romantica del loro passato nell’epistolario più bello del medioevo. Anche lei menziona la Marta evangelica, alla quale in fine di corsa Oldoni dedica un ritratto, reso vivace da una profonda conoscenza personale degli scenari occitanici, che reinquadra all’indietro le altre figure, raccontando sulla base della Legenda Aurea le peripezie romanzesche della sua fuga in Provenza e della battaglia contro il drago che infestava Tarascona, domato con la stessa dolcezza con cui lei aveva accolto Gesù: prototipo delle donne che nel Medioevo erano riuscite a ricoprire una funzione sociale non convenzionale producendo, in una ricostruzione che per amore di letteratura rinuncia a distinguere documento storico da mitizzazione agiografica, «un tipo nuovo di emancipazione femminile che coniuga insieme la pietà, l’urbanizzazione e la difficile parità di diritti».