Lo spazio comune quale insieme di relazioni in divenire, prefigurazione di legami sociali diversi, forma di emancipazione collettiva; prerequisito e prodotto allo stesso tempo, il suo principio di trasformazione risiede nel commoning. In particolare nel decennio scorso, le pratiche «del mettere in comune» emerse su scala globale hanno offerto alla vita sociale delle nostre città una prospettiva di apertura, di contro al controllo e alla disciplina che a livello spaziale il neoliberismo continua a esercitare attraverso strategie di recinzione ed enclavismo urbano, fino all’isolamento totale nelle cosiddette gated community.

Esattamente all’indagine di quei processi di connessione, ossia di quelle «pratiche che definiscono e producono beni e servizi da condividere (e grazie alle quali) certi spazi nella città diventano effettivamente comuni», è dedicato Spazio comune. Città come commoning, ora nelle librerie italiane grazie all’editrice milanese Agenzia X (pp. 218, euro 15). L’autore di questo già piccolo classico contemporaneo è Stavros Stavrides, professore di Architettura presso l’Università tecnica nazionale di Atene, con sede nello storico Politecnico, autore prolifico e attivista di lunga data e di larga esperienza.

IL VOLUME FU PUBBLICATO per la prima volta a Londra nel 2016, all’indomani della straordinaria stagione di movimenti sociali di piazza nati a livello transnazionale in risposta alla crisi finanziaria del 2008. A seguito dei severi programmi di salvataggio economico imposti dalla Troika, suo malgrado la Grecia è diventata il paese simbolo della resistenza contro l’austerity, che raggiunse uno dei suoi momenti più alti nella primavera del 2012, quando centinaia di migliaia di aganaktismenoi (indignati in greco) si radunarono spontaneamente a Piazza Syntagma. Stavros Stravides è stato testimone e protagonista diretto dell’occupazione che si sviluppò sotto il Parlamento greco per alcuni mesi; l’eco di quel conflitto e della sua vivacità espressiva e teorica risuona nelle pagine di Spazio comune.

Muovendosi all’interno di una variegata geografia di movimenti urbani, Stavrides riferisce dei progetti di edilizia sociale in Unione sovietica, delle reti di trasporto informali in Kenya, dei senzatetto in Brasile e nelle città dell’America Latina, degli squatter in Grecia, Turchia ed Egitto; racconta di un’Atene meno contemporanea – il caso del complesso abitativo di Alexandras Prosfygica, costruito negli anni 1933-35 per accogliere i profughi provenienti dall’Asia minore -, fino all’analisi di proficui esperimenti di autogoverno locale e di democrazia partecipativa quali il Chiapas e il Rojava.

ALTRETTANTO ARTICOLATA è la cornice concettuale: partendo dalla tradizione lefebvriana del diritto alla città, Stavrides attraversa la biopolitica di Foucault, la soggettivizzazione politica di Negri e Hardt, lo stato di eccezione di Agamben e Schmitt, le città porose di Walter Benjamin, i boulevard parigini di Haussmann, confrontandosi allo stesso tempo con intellettuali e studiosi come Bourdieu, Castells, Turner, Rancière, Sennet, Zibechi, Harvey, Holloway. L’autore impreziosisce questo quadro teorico con l’idea di «spazialità della soglia», ossia «una spazialità di passaggi che collega separando e separa collegando» e che si presenta come «una opportunità di infinite aperture, senza le quali il bene comune è destinato ad estinguersi».

Punti di connessione tra esterno e interno, tra entrata e uscita, gli spazi di soglia trascendono le recinzioni e creano le condizioni per ricevere nuovi commoners; nella loro produzione e nel loro utilizzo fiorisce l’inventiva collettiva, in un processo continuo di ridefinizione reciproca tra spazio, pratiche e soggetti coinvolti.

Il pregio di Spazio comune sta nel riuscire ancora a stimolare il dibattito sui beni comuni che, vuoi per sopraggiunte e mutate emergenze sociali, ha subìto dove una battuta di arresto, dove una generalizzazione/banalizzazione di contenuti rispetto al potenziale espresso circa un decennio fa. Guai a ridurre il valore del commoning a una forma di sostentamento, avvisa Stavrides, prendendo le distanze da un certo economicismo; attenzione parimenti al voler attribuire a esso una soluzione formale, ammonisce ancora il professore greco, tenendosi alla larga dalla tentazione di interpretazioni giuridiche in equilibrio tra diritto pubblico e privato.

PERVADENDO OGNI FORMA di vita, i commons semmai distruggono i confini formali conosciuti e mettono in discussione lo status stesso di proprietà, perché è solo «dentro, contro e al di là del capitalismo» – per dirla con un’espressione presa a prestito da John Holloway – che essi realizzano una forma attiva di relazione sociale. Ed è proprio grazie alla radicalità di tale prospettiva che Stavrides riesce a gettare la riflessione sui beni comuni oltre l’ostacolo della dialettica tra diritto e politica, restituendo loro una dimensione politica, partecipativa e trasformativa, ancora di grande attualità.