Solo attraverso un dialogo con i morti, diceva Heiner Müller, si possono trascendere gli orizzonti discorsivi in cui siamo immersi e acquisire la capacità di immaginare un futuro che non sia una semplice riproduzione del presente. La letteratura è da sempre abitata da questo desiderio di stabilire un contatto con un passato che non ha più voce, ma ha lasciato nella voce dei vivi tracce di una realtà forse da sempre perduta, eppure preziosa per comprendere il qui e ora al quale siamo approdati.

Günter Grass è certamente uno degli scrittori che più proficuamente si sono lasciati attirare in questo dialogo, lievemente paradossale, con ciò che può esistere soltanto nel ricordo. Lo dimostrano tante delle sue opere, dal Tamburo di latta (1959) fino al racconto postumo Statue viventi, che ora La Nave di Teseo propone nella bella traduzione di Nicoletta Giacon (pp. 80, euro 15,00).

La più bella del Medioevo
Scritto nel 2003, recentemente scoperto negli archivi dell’autore e pubblicato nel 2022, insieme ai disegni dedicati ad alcune figure di cui si racconta, mostra – ancora un volta – come Grass si abbandoni al gusto spiazzante e malinconico dell’anacronismo, del salto continuo tra tempi storici diversi, per narrare la vicenda autobiografica di uno scrittore per anni all’inseguimento di un personaggio che lo cattura, lo tallona, quasi lo ossessiona, e alla fine si dilegua. Il personaggio in questione è Uta di Ballenstedt, un’aristocratica del XI secolo, che fu moglie di Ekkehard II, margravio di Meissen, sfuggì al rogo dopo aver subito un processo per stregoneria, e sarebbe stata del tutto dimenticata se un anonimo maestro, due secoli dopo, non l’avesse immortalata in una delle dodici statue dei fondatori del duomo di Naumburg, in Sassonia-Anhalt, capolavori dell’arte medievale tedesca.

Nel primo Novecento, la nobildonna, celebrata come la donna più bella del Medioevo, diventò l’oggetto di un culto non solo estetico, che in realtà non riguardava tanto la vera Uta di Ballenstedt, del cui aspetto e della cui esistenza storica non si sa praticamente nulla, bensì la figlia di un orafo, che il Maestro di Naumburg scelse come modella per realizzarne la statua.

Le sembianze di questa icona tedesca entrarono poi anonimamente nell’immaginario popolare grazie a Walt Disney che, su suggerimento di un suo collaboratore di origine tedesca, la scelse come modello della regina cattiva nel suo primo lungometraggio, Biancaneve e i sette nani. I nazisti non apprezzarono che un emblema delle virtù femminili germaniche fosse trasformata in strega malvagia e osteggiarono il film, che apparve sugli schermi tedeschi soltanto nel 1950.

Nel dopoguerra la statua si ritrovò al di là della Cortina di ferro, quasi inaccessibile per gli occidentali: Grass la vide grazie all’invito a tenere una serie di letture in alcune città tedesche dell’est, nel 1988. Una volta arrivato nello Stato degli operai e dei contadini, si ritrovò a fronte di un presente che si stava sgretolando, mentre il tempo scorreva diversamente che in Occidente: «Bloccato verso il futuro, permeabile verso il passato». Era una condizione molto congeniale alla vocazione di uno scrittore che avrebbe confessato di volersi rendere «introvabile», fuggendo «in tempi sempre diversi», per coltivare la capacità di evadere non il presente, ma tutti i punti di vista che in esso si pretendono completamente assorbiti.

Quando si ritrovò davanti alla statua di Uta, ad attirarlo fu quello «sguardo vuoto», che «vuole costantemente essere riempito di significato», spingendo a offrire un «oggetto» o a dischiudere un «abisso». Fin troppo facile, per Grass, presumere che quegli occhi fossero fissati su orrori non detti, come una sfida all’immaginazione letteraria.

Passaggi ulteriori
Un anno dopo quel primo incontro, il narratore del racconto convoca Uta insieme al Maestro di Naumburg e ai modelli delle sue statue a un pranzo immaginario nel suo giardino. Poi, dopo la caduta del Muro, «quando tutto prometteva o minacciava il cambiamento», la ritrova davanti al duomo di Colonia e successivamente a quello di Milano, nei tratti di una ragazza che la rappresenta come statua vivente. E la vede coinvolta in un rapporto di coppia che immagina oppressivo, abusata anche sessualmente, come Uta, dal bellicoso marito.

Infine, all’inizio del nuovo millennio, quando il libero movimento dei capitali sembra cancellare la coscienza storica e lo scrittore perdere la capacità di convocare i morti a banchettare sulla pagina, la ritrova davanti all’ingresso della sede centrale della Deutsche Bank a Francoforte, nei panni di santa Elisabetta. E riesce finalmente a parlarle: è il momento del disincanto, in cui la prosa sembra estinguere l’energia immaginativa della poesia, capace di «vedere la minaccia del presente, le atrocità del passato e gli orrori del futuro»: come lo sguardo di quella statua nel duomo di Naumburg.