Nel 1934, mentre si accingeva a dare alle stampe il primo volume delle Opere di Cyprian Kamil Norwid, poeta tanto geniale quanto dimenticato, il critico Tadeusz Pini scriveva nella sua introduzione: «Innanzitutto però occorre ripulire i suoi scritti da innumerevoli stramberie ortografiche, eliminando quei caratteri di dimensioni variabili con cui l’autore, nella sua semplicità d’animo, tentava di conferire chiarezza alle proprie composizioni. Altrettanto necessario è introdurre una punteggiatura logica e omogenea, espungendo le decine di migliaia di punti esclamativi e interrogativi che concorrono a offuscare il significato».

Nel momento in cui finalmente si strappava all’oblio quel poeta originalissimo, morto semifolle e in povertà a Parigi mezzo secolo prima, la sua «creatività» ortografica veniva percepita come una stravaganza, una inutile zavorra che finiva per rendere ancor meno intelligibile una scrittura già di per sé alquanto complessa.

Non per vezzo
Solo nel dopoguerra ci si rese conto che se Norwid costellava i suoi manoscritti di sottolineature o di parole in stampatello, oppure reinterpretava con estrema libertà le regole dell’interpunzione, non era per un inspiegabile vezzo, bensì perché queste deviazioni dalla norma erano funzionali alla sua visione lirica.
Alfiere di una concezione musicale del testo poetico, equiparato a una vera e propria partitura, Norwid esigeva dal suo pubblico non un ascolto passivo, bensì una creativa re-interpretazione. «Il mio compito è far sì che il lettore, chiudendo il mio libro, si senta a sua volta artista», affermava nel saggio L’arte dinanzi alla Storia. Di conseguenza, essenziali diventavano quelle indicazioni per la fedele esecuzione dello «spartito», che l’autore affidava alla elaborazione grafica del testo. Alternando inchiostri di vario colore (rosso e blu), evidenziando parole-chiave o spargendo con capricciosa liberalità iniziali maiuscole, il poeta polacco suggeriva ai lettori quale intonazione conferire al verso e quali passaggi enfatizzare durante la declamazione.

Allo stesso tempo, la punteggiatura cessava di essere un mero sistema normativo finalizzato a semplificare la comprensione del testo; i segni d’interpunzione, così come li utilizzava Norwid, rispecchiavano piuttosto la dizione squisitamente individuale, soggettiva, refrattaria a ogni generalizzazione, del poeta, che la ri-orchestrava di volta in volta. L’atto verbale – così sosteneva l’autore nella premessa al poema Discorso sulla libertà di parola – è infatti unico e irripetibile: «La voce viva ha come sua caratteristica che nessuno dirà due volte le stesse cose allo stesso modo, utilizzando i medesimi suoni e i medesimi gesti. La parola, una volta pronunciata, ha una sua irreversibilità; la lettura, dunque, ha tratti monumentali – ed è arte…».

Una singolare dinamicità Emancipata da qualsiasi standard prefissato, la punteggiatura si fa mezzo espressivo individuale, prezioso per l’organizzazione ritmico-sonora del verso. Convinto che la poesia polacca dovesse imboccare risolutamente una nuova via dopo il fallimento del romanticismo patriottico, Norwid fu uno strenuo innovatore anche in fatto di interpunzione; lo testimoniano le «decine di migliaia di punti esclamativi e interrogativi» apparentemente superflui che tanto scandalizzarono Pini. A cadere sotto la sua falce di «redattore-vandalo» (così lo definì indignato Zdzisław Jastrzebski) furono soprattutto quei segni inseriti all’interno della frase al fine di frammentarla in una successione di micro-enunciati, ognuno caratterizzato da una sua specifica intonazione. Reintegrati nelle edizioni successive, questi punti interrogativi ed esclamativi «inattesi» conferiscono al verso di Norwid una singolare dinamicità: domande più o meno retoriche finiscono per collidere con entusiastiche asserzioni; viceversa, anche le affermazioni più convinte e spensierate vengono smorzate da dubbi repentini.

Ad esempio, nel Pianoforte di Chopin il poeta tenta di evocare, anche per mezzo di una punteggiatura nervosa e rutilante, il fraseggio virtuosistico del musicista: «Le quattro corde conversano, / Urtandosi, / A due – a due – / In un tenue bisbiglio: ‘Ha già dato / Il primo accordo?…/ O è quel Maestro!…che suona…eppur – respinge?» Ancor più inconsueto, sempre nella stessa ode, è l’utilizzo del doppio trattino (- -), quasi l’autore volesse distinguere intervalli diversi, come in una notazione musicale: «E – ecco – hai terminato il canto – -/ E non ti guardo più – – soltanto – sento… / Cos’è?… come una disputa infantile – – / – I tasti stanno ancora litigando / Per un desiderio di canto non finito: / E si urtano piano, / A otto – a cinque – bisbigliando: / ‘Ha cominciato a suonare? o ci respinge??…».

Dovendo selezionare un segno d’interpunzione in particolare fra i tanti maneggiati con scarsa ortodossia da Norwid, la scelta cadrebbe senz’altro sul trattino breve. L’autore polacco ne fece un uso poco convenzionale sin dal 1842, quando iniziò a «smontare» alcune parole composte suddividendole, al fine di renderne più evidente l’etimologia (ad esempio złoto-usty, «criso-stomo», oppure przeciw-wrotny, «contro-verso»).
A partire dal 1850 a questa funzione disgiuntiva se ne affiancò una più originale, «congiuntiva»: Norwid adottò con frequenza sempre maggiore il trattino come una sorta di legatura musicale per connettere un sostantivo ai suoi attributi e creare così nuove unità ritmico-semantiche. Emblematica in questo senso è la splendida lirica del 1861 La sorgente, dove la discesa del poeta agli inferi avviene attraverso una selva di edifici e luoghi fantastici evocati da aggregati verbali scaturiti dalla ricomposizione di astratto e concreto: il «colonnato-della-noia», il «pronao-dei-capricci», il «portale-della-menzogna», la «soglia-della-miseria», e così via.

Da semplice segno d’interpunzione il trattino diventa qui autentico trait d’union, strumento mitopoietico capace di riconnettere sulla carta ciò che è disgiunto nella realtà.

L’ inventiva dimostrata da Norwid nei confronti della punteggiatura contribuì a rinsaldare quella fama di poeta «oscuro» che lo perseguitò già in vita. Oltre ai punti esclamativi e ai trattini sparsi a piene mani, la sua tendenza all’ellissi, all’ambivalenza semantica e alla frammentarietà, nonché la predilezione per un lessico arcaizzante e per la creazione di neologismi, ostacolarono non poco la sua inclusione nel pantheon dei poeti ottocenteschi polacchi, accanto ad Adam Mickiewicz, Juliusz Słowacki e Zygmunt Krasiński. Anche se, ovviamente, non mancarono voci eccentriche, pronte a esprimersi in senso contrario.«“Norwid involuto?! Macché – la sua è una normale sintassi à la Cvetaeva», pare che avesse replicato Iosif Brodskij all’amico Tomáš Venclova che, dopo aver tradotto nel 1969 in lituano quattro poesie del poeta polacco, si lamentava del suo stile «arzigogolato».

Accanto a Cvetaeva
D’altronde, Brodskij non solo si era misurato a sua volta con Norwid in qualità di traduttore; colpito dalla stupefacente modernità del poeta polacco («Riconoscere in un individuo del secolo scorso le proprie emozioni è qualcosa di assolutamente sconvolgente», scrisse), lo poneva addirittura al di sopra di Goethe, Wordsworth e Baudelaire. Accanto per l’appunto a Cvetaeva, autrice da lui amatissima, che in effetti sembra condividere con Norwid la tendenza alla frammentazione ritmica del verso mediante un uso insistito della punteggiatura.

Al tempo stesso è interessante come nelle sue traduzioni Brodskij non assecondi affatto la predilezione di Norwid (e di Cvetaeva) per punti esclamativi e trattini. Non si sa se la soppressione di questi segni sia da imputarsi a un redattore sovietico emulo di Pini; di certo le versioni di Brodskij pubblicate nel 1971 ne omettono svariati, esibendo pertanto un andamento più pacato, che poco ha a che vedere con la sintassi spezzata e l’enfasi melodrammatica di Norwid. Una ennesima riprova di quanto sia difficile per chi traduce riuscire a non sostituire involontariamente alla voce dell’originale la propria personale intonazione.