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«Crisi o no?» I 5 Stelle tentati dal salto nel buio

«Crisi o no?» I 5 Stelle tentati dal salto nel buioGiuseppe Conte – LaPresse

Maggioranza Nella legislatura segnata dal posizionamento fisso al governo, la scelta della rottura non sarebbe scontata. Conte lo sa, per questo frena i suoi

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 9 luglio 2022

«Andate pure in vacanza, vi aggiorneremo», dice Giuseppe Conte tentando di apparire sornione. Il mood delle tensioni tra il Movimento 5 Stelle e Mario Draghi, in maniera lenta eppure inesorabile è cambiato. Lo slittamento è indicativo degli umori all’interno delle truppe parlamentari: dai toni allarmati di «qualcuno ci vuole far fuori dal governo» alla malcelata e nostalgica ebbrezza del partito di lotta.

PER CAPIRE dove sta andando il M5S bisogna contestualizzarne il percorso nell’arco (almeno) di questa legislatura. L’evoluzione racconta di almeno tre mutamenti sostanziali di linea politica, ciò che possono permettersi solo i dirigenti di un (non)partito che ha teorizzato fin dalle sue origini l’inutilità e anzi la pericolosità di ogni infrastruttura organizzativa e di ogni stabile referente sociale che non devono rendere conto a nessuno.

NELLA PRIMA FASE, il M5S era retto da Luigi Di Maio e Giuseppe Conte era l’avvocato del popolo scelto come premier. Dal governo con la Lega, i 5 Stelle coltivavano l’ambizioso progetto di voler ridisegnare il sistema politico italiano attorno alle due forze che avevano vinto le elezioni. Il sogno venne interrotto da Salvini, che sulle sabbie del Papeete decise che aveva già prosciugato tutto il voto dei grillini di destra e fece cadere il governo. Sulla spinta dei suoi numerosi e folti gruppi parlamentari il M5S si alleò con il Pd. Forte della benedizione internazionale e convinto di avere ormai un suo autonomo profilo istituzionale, Conte rientrò a Palazzo Chigi, questa volta a capo di una coalizione di centrosinistra. Comincia così una fase interlocutoria. Luigi di Maio archiviò le invettive contro il «partito di Bibbiano» e comprese che era finita l’epoca del Movimento 5 Stelle pigliatutto, in grado di acchiappare voti sia a destra che a sinistra. Si dimise da capo politico e dalla postazione privilegiata della Farnesina, consigliato dall’attuale coordinatore politico di Insieme per il futuro Vincenzo Spadafora, prese a tessere una rete di relazioni e tentò di indirizzare il M5S verso un approdo moderato. «Non fischiate, adesso lo Stato siamo noi», si fece sfuggire Di Maio rivolgendosi alla platea grillina.

QUANDO ARRIVÒ il turno di Matteo Renzi di decide che è arrivato il momento di far cadere Conte, questa volta per spianare la strada a Draghi, il M5S entrò nella sua terza fase. Conte diventò leader a furor di popolo e lanciò il «Fronte progressista» con Articolo 1 e Pd. L’allora segretario dem Nicola Zingaretti gli offrì un assist non da poco riconoscendogli addirittura il ruolo di «federatore» della coalizione. Su una traiettoria non ancora contrapposta ma parallela, Beppe Grillo sbarcò a Roma per convincere i suoi a entrare nella terza maggioranza della legislatura che sostiene il «grillino Draghi» (sic) e dichiarò finita la fase del populismo, ora che erano stati conquistati il reddito di cittadinanza e la legge cosiddetta «spazzacorrotti». Per il fondatore era tempo di costruire un progetto verde. È l’ancoraggio del M5S in un’area di centrosinistra e la chiusura definitiva col metodo Casaleggio: rastrellare i voti di qualsiasi elettore e per eleggere cittadini qualsiasi in nome della contrapposizione alla Casta.

QUESTE TRE FASI e le diverse sfumature di questi passaggi hanno un minimo comune denominatore: in tutti i casi il M5S si pensa come una forza che deve stare al governo. Ecco perché la scissione di di Maio e la nutrita pattuglia di parlamentari che si è tirata dietro non vengono dal nulla, non sono soltanto una «operazione di palazzo» come ormai da due settimane chi è rimasto nel M5S sostiene. Piaccia o meno, la mossa di Di Maio affonda le sue radici nella storia del grillismo e delle vicende pentastellate di questi anni, nel modo in cui si sono autorappresentate e narrate. Allo stesso modo, la costante dei 5 stelle più di governo che di lotta rende difficile per Conte la strada del ritorno all’opposizione. Peraltro, il leader è già impegnato nell’intervento a cuore aperto, di trasformare il M5S in partito vero e proprio. Conte usa temi sociali per dimostrare di essere ancorato al lato progressista. In molti gli dicono che se non balza adesso fuori dal governo il M5S è destinato a sgretolarsi lentamente. L’avvocato è sensibile a queste argomentazioni ma pondera i rischi del salto alla volta della dimensione ignota: l’opposizione.

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