Dopo mesi passati a giocare una partita di sottrazione, mettendosi a valle delle beghe interne dei 5 Stelle e limitandosi a osservare l’entropia che avvolgeva il nuovo corso di Giuseppe Conte, Luigi Di Maio ha deciso di fare le sue mosse in prima persona.

Chi lo conosce bene, e chi in questi anni ha notato l’affinarsi delle sue capacità tattiche, dice che che il ministro degli esteri difficilmente si sarebbe esposto fino a questo punto in mancanza di una rete di sicurezza pronta. Si tratterebbe del richiamo della foresta centrista, dell’occupazione di quella terra di nessuno che da mesi tutti evocano e considerano decisiva per le prossime elezioni politiche. Da capo politico del M5S, alla scorsa legislatura, Di Maio aveva preso come consigliere politico Vincenzo Spadafora, che già aveva lavorato per l’Udeur e con Francesco Rutelli ai tempi della Margherita. Al culmine della campagna elettorale per le politiche del 2018, quelle del boom del 333% che ha collocato il M5S come pietra angolare di ogni maggioranza, Di Maio parlava in prima persona della generazione precaria con una chiave in fondo conservatrice: «Vogliamo fare quello che hanno potuto fare i nostri genitori, non chiediamo di più». Nei suoi progetti, la Terza repubblica sarebbe dovuta nascere sulle ceneri dei vecchi partiti: a quel punto il M5S e la Lega avrebbero ridisegnato il sistema istituzionale e i 5 Stelle sarebbero diventati il soggetto moderato adatto ai tempi nuovi.

Questo disegno è fallito quando Matteo Salvini si è sfilato dalla maggioranza del Conte I. A quel punto Di Maio ha dovuto rimangiarsi i suoi anatemi contro il Pd «partito di Bibbiano», ha abbandonato il vertice del M5S e ha lavorato per costruirsi una posizione a prescindere dalle parabole del grillismo. Ora va dicendo che è finito il tempo dei partiti personali, e probabilmente si riferisce anche alla Piano B che Conte tiene nel cassetto se il M5S dovesse implodere dal punto di vista politico e/o organizzativo: una forza ritagliata sulla sua figura, sorta di new company del grillismo. Va da sé che, se le condizioni di questa ipotesi dovessero concretizzarsi, Di Maio e la stragrande maggioranza della vecchia guardia pentastellata sarebbero parte della bad company: scadrebbero insieme alla loro seconda legislatura.

L’ironia della sorte vuole che i mille campanili della costruenda basilica centrista corrispondano esattamente a dei partiti personali. Carlo Calenda fa sapere da giorni che di Di Maio non ne vuole sentir parlare. All’incirca lo stesso concetto espresso da Matteo Renzi. Al contrari, hanno sottolineato le qualità di Di Maio, definito «alleato affidabile», gli ex renziani rimasti nel Pd e organizzati nella corrente Base riformista. Si è esposto anche l’ex direttore del Tg5 Emilio Carelli, che Di Maio ha portato in parlamento nelle liste del M5S e che adesso aderisce a Coraggio Italia, il partito centrista fondato dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e dal presidente della Regione Liguria Giovanni Toti. Tra i due pare che già non corra buon sangue, per motivi di primazia. Ma Carelli assicura: per i centristi Di Maio è un «interlocutore naturale».