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Crisi in Myanmar, la Cina si propone come mediatrice

Crisi in Myanmar, la Cina si propone come mediatrice

Colpo di stato Primo giorno dei tre di sciopero generale: almeno tre le vittime delle violenze militari

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 9 marzo 2021

Mentre la protesta della società birmana contro il golpe militare del 1 febbraio ha ieri nuovamente sfidato la giunta nel primo giorno del terzo sciopero generale lanciato da sindacati e governo clandestino, la violenza dell’esercito è stata protagonista di un’ennesima giornata di sangue con almeno tre vittime.

UN NUOVO SPIRAGLIO nella posizione cinese si apre intanto nelle parole del capo della diplomazia di Pechino Wang Yi, che domenica ha avuto un lungo incontro con la stampa nazionale ed estera in cui ha affrontato anche il tema Myanmar in cui la Rpc, auspicando pace e stabilità, si dice «pronta a impegnarsi e comunicare con le parti interessate per svolgere un ruolo costruttivo al fine di alleviare la situazione». Situazione marcata da una tragedia quotidiana con arresti che ieri sarebbero stati di almeno 200 persone.

«La giornata dell’8 marzo è stata segnata da una dura repressione e si spara e uccide più che nei giorni scorsi» ha detto ieri un cattolico birmano all’Agenzia Fides cui ha raccontato l’episodio avvenuto a Myitkyina, capitale dello Stato Kachin che conta un 30% di popolazione cristiana: per sfuggire alle percosse e agli arresti, alcuni manifestanti rifugiatisi nel complesso della Cattedrale cattolica di San Colombano sono finiti sotto il fuoco dei militari con un bilancio di 2 morti e 7 feriti. La protesta però non si ferma anche se ormai Tatmadaw, l’esercito, non sembra più avere remore: se ha circondato una sede cattolica, domenica ha sparato a Bagan, il centro buddista più importante del Paese.

APPESO A UN FILO di speranza, il movimento di disobbedienza civile continua a guardare alla comunità internazionale anche se il Consiglio di sicurezza di venerdì scorso non ha dato segnali, grazie ai freni tirati da Russia e Cina. Domenica però i cinesi – che sulla questione oscillano tra la non ingerenza e la preoccupazione di una situazione ormai fuori controllo – hanno fatto un passo avanti: «In primo luogo, la pace e la stabilità sono il prerequisito per lo sviluppo di un Paese – ha detto il ministro Wang Yi – e spero che le parti interessate manterranno la calma ed eserciteranno moderazione, agiranno negli interessi fondamentali della popolazione, affronteranno le loro divergenze attraverso il dialogo e la consultazione all’interno del quadro costituzionale e giuridico e continueranno a portare avanti la transizione democratica». Se la frase resta ambigua sulle responsabilità, la Cina considera però una «priorità immediata prevenire ulteriori spargimenti di sangue». Poi Wang ricorre all’Asean, l’associazione dei Paesi del Sudest che non sembra però sinora in grado di fare molto:

«La Cina sostiene l’Asean nei principi di non interferenza negli affari interni, nella costruzione del consenso e nella mediazione…Sulla base del rispetto per la sovranità del Myanmar – conclude Wang – la Cina è pronta a impegnarsi e comunicare con le parti interessate per svolgere un ruolo costruttivo».

PAROLE IMPORTANTI ma ancora considerate troppo blande sia da Tatmadaw sia dal movimento nelle piazze. Che la Rpc non condanni la giunta militare, che piace forse a Pechino assai meno di quanto non si creda, non va giù ai birmani e – sostiene il magazine Irrawaddy – più di 50mila persone sui social hanno condiviso il boicottaggio dei prodotti cinesi mentre quasi un milione ha condiviso su Fb e Twitter – in birmano, cinese e inglese – un messaggio in cui si afferma che il perseguimento del proprio interesse da parte di Pechino ha dimostrato che la Cina considera ufficialmente le morti e le ferite del popolo birmano una «questione interna» e che ciò che preme a Pechino sono solo i suoi interessi.

SI PALESA ANCHE una minaccia, ancorché a parole, e cioè quella di attentati al gasdotto che attraversa il Myanmar sino in Cina: sarebbe per la Rpc un «affare interno anche quello?», si chiedono gli utenti del web. Non di meno, anche Foreign Policy, magazine americano difficilmente tacciabile di simpatie verso Pechino, osservava in febbraio che «sebbene molti osservatori ritengano che Pechino preferisca regimi autoritari, la Cina ha pochi motivi per scegliere una dittatura militare imprevedibile e ambiziosa con tendenze espansionistiche rispetto a un governo civile prevedibile e ampiamente affidabile» come quello di Aung San Suu Kyi.

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