Pardo d’onore alla carriera, Costa-Gavras, 89 anni compiuti lo scorso febbraio, presidente appena riconfermato alla Cinémathèque de Paris, festeggia quest’anno al Festival di Locarno la sua bella parabola cinematografica: di cui ha fatto da pittoresco anticipo, nella sala parigina, l’omaggio all’interprete feticcio Yves Montand, con la proiezione di documentari e dell’irresistibile ‘polar’ d’esordio del cineasta greco, Compartiment tueurs.

Nella casina di fiaba dall’intonaco rosa, dentro un cortiletto-giocattolo nel cuore del Quartiere Latino, è lui a far domande, lo sguardo curioso e impaziente, in andirivieni tra ieri e oggi, tra la sua Grecia e la nostra Italia. Incredulo, fin dai primi incontri, e sarcastico davanti alle coazioni a ripetere: «I colonnelli, 7 anni d’incubo dal ’67 al ’74, avevano trovato consenso con una fake news: salvare la Grecia dai comunisti…». La sospensione ironica è un ammicco agli slogan-fotocopia di bottega nostra: «Come può la gente continuare a essere così ingenua? Da voi, per di più, il comunismo era diventato, con Berlinguer, un partito aperto e moderno, con personalità straordinarie come Giorgio Napolitano, che avevo conosciuto e frequentato a Botteghe Oscure».

Le riflessioni di Costa-Gavras sono uno strappo al sottofondo leggero di voci infantili provenienti dalla vicina scuola materna. Nell’ampio soggiorno, tra l’ordinatissima libreria e i quadri infiammati di colori mediterranei, fa sfoggio di sé uno specchio d’epoca, con la foto in b/n della moglie Michèle, anche sua produttrice, incollata tra le schegge d’un’antica frattura. Incidente domestico o arte moderna, un Pistoletto fuori catalogo? «È la mia riparazione artigianale dopo un battibecco casalingo con lancio d’oggetti contundenti – sorride Costa-Gavras –. L’importante era salvare lo specchio».

Da quando, 68 anni fa, ha abbandonato la Grecia, dov’era nato 21 anni prima a Loutra-Iraias, il regista non ha mai smesso d’interrogarsi, e interrogare, nel suo cinema di denuncia, sulle menzogne del nostro tempo: dove il mondo sembra far da cassa di risonanza a contraddizioni e colpe del suo Paese, da La confessione, sui processi staliniani, a L’Amerikano, su manovre della Cia in America Latina, a Missing-Scomparso, sul Cile di Pinochet. La Grecia come test di lebbre planetarie: l’ipocrita silenzio del Vaticano davanti all’Olocausto (Amen), il riciclaggio civile dei criminali di guerra (Music Box), le bieche trappole speculative delle banche in Le Capital, presentato 10 anni fa in epilogo del 2° Festival du film engagé a Algeri. Tutti titoli su cui traspare, luminoso sfregio di sfida, una lettera, Z, terzo film dell’autore, sulla breve parabola politica di Grigoris Lambrakis, medico, atleta e deputato di sinistra, vittima a Salonicco d’un incidente stradale orchestrato da polizia e esercito su mandato del governo e morto il 27 maggio 1963, alle 2.30.

Thriller politico, premiato a Cannes ’69 e Oscar del film straniero.
Ha rischiato d’essere l’ultimo mio film. E invece è diventato la bandiera di ogni rivolta contro i crimini di Stato. Ma quando son venuto a Roma per presentarlo, in un cinemino in zona via del Corso, ho avuto uno choc, scoprendo che in Italia me l’avevate ribattezzato Z-L’orgia del potere. Ero lì lì per tornare indietro.

La data di quel lunedì notte di 59 anni fa, minuscolo grumo di calendario nella Grecia di ieri, s’è allargata, a macchia, sul Paese
Già il giorno dopo, dalla processione dei quattrocentomila ai funerali di Lambrakis a Atene, s’è alzato il grido: Athanatos, immortale. E nei graffiti sui muri hanno cominciato a gocciolare le Z, iniziale del greco Zei (pronuncia Zi, ndr): ‘Vive’.

Un primo allarme per la destra, da cui scaturirà il golpe del 21 aprile 1967?
Era nell’aria un po’ ovunque la paura del nuovo, l’ostilità a conquiste civili. Sempre nel ’63, qualche mese dopo Lambrakis, viene assassinato John Fitzgerald Kennedy a Dallas. JFK non era certo un comunista. Nemmeno Lambrakis: esponente dell’EDA (Sinistra democratica unita), si batteva per princìpi umanitari, come il riavvicinamento ai Paesi dell’Est o il no alle basi atomiche Usa in Grecia.

Ma il processo, iniziato all’indomani dei funerali, filo rosso del suo film, è stato il contropiede a complotti del potere e verità di Stato, vero?
Era cominciato male, con un generale poi condannato per aver esercitato pressioni sui testimoni. Il giudice istruttore cui poi è stato affidato, Christos Sartzetakis, che ha stabilito la complicità di esercito e polizia, era uno di destra: ma convinto, come giudice, che, in ogni democrazia, prima viene la giustizia, poi il potere politico… (Altra sospensione e sguardo interrogativo su casi di Paesi vicini).

Nel film, il giudice è Jean-Louis Trintignant, scomparso da poco, premio d’interpretazione a Cannes.
Fino a quel momento era il belloccio del grande schermo: è stata la sua prima volta in un ruolo acido, fastidioso. È entrato alla perfezione nel personaggio. Anche grazie allo speciale paio d’occhiali che gli abbiamo confezionato: lenti spesse, ma attraverso cui si può vedere l’occhio, indovinare il pensiero.

Perché il suo terzo film poteva essere l’ultimo?
Perché ogni produttore, come mi ci avvicinavo, scappava. Realizzarlo è stato per me un atto di resistenza. Alla vigilia dell’uscita i colonnelli mi han tolto la cittadinanza greca. Il romanzo di Vassilis Vassilikos, da cui l’ho tratto, era uscito nel novembre del ’66, cinque mesi prima del golpe. Me l’aveva passato mio fratello, amico dell’autore, durante un mio breve soggiorno a Atene, cinque giorni prima del colpo di stato. Ho cominciato a leggerlo in aereo, proprio nelle ore del golpe. Atterrato a Parigi, avevo già il film in testa. Senza immaginare la lunga serie d’ostacoli al varco.

Superati grazie a complicità e amicizie?
Sì, prima di tutto, Mikis Theodorakis. Era in isolamento nel Peloponneso, perché nel ’63 s’era messo alla testa del movimento Lambrakidès, fiorente organizzazione politica con oltre duecento centri culturali. Per chiedergli le musiche, l’ho fatto avvicinare, con l’aria della giovane turista, dalla mia fidanzata: ‘Prendete quel che volete da quelle già composte’. E io ho cominciato a tagliuzzarle e riadattarle, registrandone una a rovescio, che lui poi, sorpresissimo, non ha riconosciuto.

Altro complice – altro grande del cinema francese scomparso di recente – è Jacques Perrin, fotoreporter in «Z».
Aveva deciso di finanziare il film, debuttando nella carriera di produttore, il maggiore poi in Francia, capace di portare al successo soggetti mai toccati prima. E aveva suggerito, come «finta Grecia», prima la Sicilia (subito poco disponibile), poi l’Algeria, convincendo il ministro dell’Informazione a concedere autorizzazioni e troupes.

Infine, Montand, l’amico di sempre, nel ruolo di Lambrakis.
È il protagonista, ma, su una durata di due ore e 8 minuti, appare sullo schermo due minuti. A parte il fotomontaggo che ricostruisce la storica maratona di Atene del 21 aprile 1963 divenuta una marcia per la pace, bloccata dalla polizia: di cui il deputato grazie all’immunità parlamentare aveva finito per essere l’unico partecipante.

Com’è nata la collaborazione con Montand?
Quando l’ho conosciuto, voleva smettere con il cinema. Grande cantante, anche se non leggeva la musica e non sapeva suonare (ma aveva un orecchio finissimo), era stato agli inizi attore mediocre. Quando ho portato a Simone Signoret la sceneggiatura del mio primo film, Compartiment tueurs del ’65, proponendo a Montand d’interpretare l’ispettore Graziani con l’accento del Midi, lui s’era subito opposto: «Non faccio Fernandel!». Poi, una volta convinto, fin dalla prima sequenza ha finalmente cominciato a tirar fuori la sua personalità, liberandosi delle pose alla Bogart o alla Fred Astaire cui s’era abituato in Usa. Era una persona splendida, con la verve immutata degli esordi, quando faceva il buffoncello nei cabaret, ragazzotto allampanato alle prese con le canzoni di cowboys o le imitazioni, appunto, di Fernandel. Ha sempre mantenuto la sua natura semplice d’immigrato, figlio di povera gente, rifugiatasi a Marsiglia dalla Toscana, quando lui aveva due anni, per scampare all’Italia di Mussolini.

Che ricordo ha del suo primo film?
Quello di un’adunata di amici. La partecipazione di Montand era stata una calamita per altri attori (« e io no? »), dal giovane Perrin a un inedito Michel Piccoli. Non c’è alcuno dei miei film, anche i meno riusciti, di cui mi sia pentito. Tutti girati sulla spinta dell’urgenza, d’un senso del dovere: forse qualcuno, come La confessione, uscito nel momento meno opportuno.

Il momento è sempre giusto quando l’opera è necessaria.
È quel che abbiamo tutti sentito con Z: bisognava realizzarlo, subito. La sceneggiatura, l’ho buttata giù di corsa, scrivendo con Jorge Semprun notte e giorno, rinchiusi nella casa di campagna in Normandia di Montand.

Ha seguito in anticipo il consiglio rivolto dai Taviani ai giovani vogliosi di far cinema: «Girate film che sentite indispensabili».
È stato il cinema italiano a rendermi indispensabile fare cinema: ne ero un fan assoluto ai miei primi anni in Francia, assiduo frequentatore della Cinémathèque di Henri Langlois, che parlava greco e incontravo spesso. Oggi, da presidente, ho avuto il grande piacere di ritrovare di persona, nelle retrospettive, i maestri di gioventù, come Francesco Rosi, o, almeno, i loro film. Come l’intero firmamento Jacques Demy (di cui è stato assistente in La Baie des Anges), onorato da una mostra sfolgorante alla Cinémathèque. Replicata subito dopo dall’omaggio a Pasolini.

Che è stato, con la sua morte piena d’ombre, il nostro «Z». Altra convergenza Grecia-Italia, Costa-Gavras? Altro battesimo d’una scomoda immortalità?
Ghiannis Ritsos, poeta amico di Theodorakis, lui pure affiliato al movimento Lambrakides, diceva che «La poesia non ha mai l’ultima parola / ma ha sempre la prima». Anche la maratona solitaria di Lambrakis è stata poesia.