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Corrispondenze bibliche nel presente quotidiano

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Teatro Go Down, Moses, il nuovo spettacolo di Rome Castellucci rilegge la figura di Mosè attraverso situazioni della vita contemporanea

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 17 gennaio 2015

Il nuovo spettacolo di Romeo Castellucci (nuovo per l’Italia, ha già debuttato in Europa, e per il 2015-2016 ha fissata un’importante tournée di qua e di là dell’Atlantico), ha il titolo dolce di un bello e famoso spiritual nero che invoca Mosè, e di Mosè vuole raccontare alcuni dei molto salienti momenti di vita, seppure in sua totale assenza.

Go down, Moses (fino a domani al Teatro Argentina) pensa e ripercorre i molti e diversi episodi «miracolosi» della vita del maestro e profeta d’Israele, dal «roveto ardente» alla sua nascita misteriosa, al passaggio del Mar Rosso per fuggire dal Faraone d’Egitto di cui il suo popolo era schiavo, alle Tavole della legge ricevute sul Sinai da Dio. Senza sceneggiarli tutti questi mitici accadimenti che restano nel patrimonio di diverse religioni ancora oggi – così almeno, promette Castellucci nel programma di sala – ma assicurando di tradurli nelle esperienze in cui ognuno di quegli episodi potrebbe prendere forma nella vita quotidiana di ogni spettatore.

Così la prima scena mima l’adorazione idolatrica del Vitello d’oro (che per la festosa comitiva si trasforma qui in un coniglio), per passare a un rullo elettrico che gira a velocità vorticosa e attira e trita la peluria più o meno corposa che vi cade sopra, parrucca o barba di profeta che sia.

Poi il «realismo» sembra prendere la mano all’autore: una giovane donna, in un bagno pubblico, subisce una emorragia copiosa che, inzaccherando tutto l’ambiente con qualche limite di gusto rappresentativo, fa pensare a un aborto improvviso piuttosto che a un parto solitario e «da nascondere». Ma l’indagine successiva in una sorta di commissariato, ci piomba più che nell’occultamente di neonato, nella povertà di interrogatori polizieschi, plausibili solo in una qualche serie televisiva italiana.

È questo il vero problema dello spettacolo. Tra le belle immagini che rimangono nel ricordo come le scenografie, reali o virtuali che siano (difficile distinguere nella semioscurità dietro il velatino di proscenio), finisce col predominare il senso di sgomento per quelle battute sempliciotte, che nessuno potrebbe riferire al proprio vissuto. Discorso che vale anche per l’apice patologico della risonanza magnetica alla quale la medesima giovane donna si sottopone, e dal cui tubo non si esce generalmente né con la sensazione di essere scampati all’Egitto, né tanto meno sollevati nell’umore, visto che per qualche motivo doloroso quell’esame si è dovuto fare.

Insomma si aspetta inutilmente che Mosè scenda lungo lo svolgersi dello spettacolo, mentre si ripassano mentalmente i ricordi del catechismo o del film di Cecil De Mille, nonostante il dispiego di mezzi potente cui Castellucci ricorre. Un blues risuona a un certo punto, ma si rivela scarso movente per rintracciare parentele tra Israele schiavo e affrancato da Mosè con i neri ancora discriminati in America.
Si resta più facilmente vittima delle sbafature del testo: si apprezzano le visioni, si accorda l’orecchio sulla bella e giusta colonna sonora di rumori che il fedele Scott Gibbons ha organizzato in partitura, ma rispetto ad altri più acuminati lavori dell’autore, qui pare di rimanere in superficie, o all’esterno se si preferisce, del congegno maledetto ed esaltante che è la vita.

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