Corpi indocili assetati di passione
NARRATIVE «Settantadue. #dialisicriminale», di Simone Pieranni per Alegre. Da Proust a Mann, la letteratura ha sondato i territori della malattia cercando un senso nel dolore
NARRATIVE «Settantadue. #dialisicriminale», di Simone Pieranni per Alegre. Da Proust a Mann, la letteratura ha sondato i territori della malattia cercando un senso nel dolore
«Il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa», così Susan Sontag nel 1979 in un libro ormai divenuto un classico, Malattia come metafora, definiva una condizione, anzitutto la propria, che a un certo punto capita di vivere. Zona oscura, lavorio umbratile che cammina accanto e che un giorno sorprende, oppure già un percorso, dipende e ci fa dipendere da qualcosa e qualcuno che è fuori di noi; molte sono state le scritture dedicate al tema della malattia, elemento scomodo o rimosso attraverso metafore di flagelli, vendette, scandali o anche narrazioni di sé e del proprio sentire privato. Sta di fatto che l’immaginario che viene costruito dal discorso pubblico intorno alla malattia è spesso mitologico e non fornisce la realtà.
Settantadue, il libro di Simone Pieranni edito di recente per Alegre (pp. 245, euro 16) e che porta l’eloquente sottotitolo di #dialisicriminale (in hashtag, quindi virale in potenza), vuole fare ritorno alla realtà e alla sua poetica dei contrasti. Settantadue sono i giorni che l’autore e protagonista del libro ha trascorso in dialisi nell’arco di tre anni, 1728 ore, dieci settimane. Tante o poche appartengono alla conta esatta che fa guardare il mondo in maniera diversa, non c’è un «prima», si può solo andare avanti.
«Dire, fare, baciare. Salvare la vita», l’incipit è veritiero a rappresentare ciò che l’autore ci autorizza a scoprire: si può afferrare il proprio lato notturno per calarcisi in profondità, fino a ciò che egli stesso chiama «origine»; mentre quella cittadinanza più onerosa che prima o poi chiunque acquisisce – secondo Sontag – resta qui come uno strappo ingiusto, in forma di nomadismo, per concedersi il privilegio di non essere più punibile, rintracciabile e perseguibile di quanto già lo sia.
Tra il memoir e il reportage, Settantadue è narrazione autobiografica con la precisione dell’inchiesta e la perfezione tenue di uno haiku. La posta in gioco è infatti alta: o tutto o niente, in un doppio passo che prima spasima per la forza di una ricerca delle proprie radici, e poi plana – lento – dopo tanto vagare in un approdo sicuro. I luoghi, principalmente tra Genova, Roma e Shanghai ma anch’essi mobili, si mescolano, così i piani sapientemente dosati e i registri linguistici. Se il rapporto con la macchina per la dialisi – con cui l’autore entra in contatto tre volte alla settimana – è balia asciutta che gli ricorda un’eredità senza sconti, i paraggi della perdita paterna – come i frammenti dei suoi discorsi amorosi – sono invece distopici. Mettere in scena il corpo allora è darsi la possibilità di osservare la propria anatomia, soggettiva e politica, i paradossi di un’allusione alla norma che si disfa continuamente, ai limiti della sopportazione.
Dalla fistola all’aneurisma alla descrizione di reni policistici con relativi livelli di fosforo e azotemia, creatinina e sodio, la maggior parte delle persone non ha la minima idea di cosa sia la dialisi, questo è il primo dato. Che l’autore sappia invece di cosa sta parlando, che descriva non una dialisi qualsiasi ma quella propria e di chi gli sta accanto è il motivo di una scrittura credibile, competente ed emozionante. La circospezione con cui Pieranni si ausculta mentre viene sottoposto alla «pulizia» dialitica diviene la disciplina di sé, di ciò che funziona o che bisogna tarare meglio ma è anche misura dell’abbandono che si ripete, talmente verticale da essere difficilmente integrabile.
La sete, argomento in apparenza banale per chi trova un legame scontato tra un bisogno e il suo immediato soddisfacimento, è languore centrale, ulteriore, che pervade l’intero testo. È l’acqua in più che l’autore – in quanto dialitico – non può permettersi di accumulare e tuttavia una scarsità, del quasi niente, che Pieranni trasla in un desiderio di giustizia che spesso emerge non per singolare deprivazione ma per quel che osserva fuori di sé. È forse un modo per rappresentare la peregrinazione di questo presente? Cercare dimora e trovarla solo in un’anomalia per poi invece un bel giorno avvertire che si può stare almeno in due? In Settantadue, l’essere insieme sta nelle mani di Mara, che sia una o molte ha poca importanza perché ciò che vede lo scrittore in lei fa da unico contraltare umano alla disinfezione macchinina, e tanto gli basta. Nella grande risorsa di riconoscersi vulnerabili, spesso inermi e sull’orlo di soccombere – per ciò che si ha e per quel che si ha quasi timore arrivi un giorno, un trapianto certo – Mara è tutti i nomi dell’amore conosciuto. Di qualcuno per cui, sembra esserne convinto Pieranni, si è disposti a crescere purché pensati con passione.
Amaro, fuori dai cliché attraverso cui sovente ci si autorappresenta sofferenti e quindi dotati di una sensibilità superiore alla media per non deludere la retorica della «docilità della malattia», il libro sceglie di dare invece voce alla rabbia e di farla fiorire, d’improvviso e senza compromessi, né morbosità. È chiaro che la sofferenza renda più edotti sulla condizione umana, tuttavia quel che si è imparato non lo si baratta certo a buon mercato, per questo il più delle volte resta al fondo, come un non detto da perlustrare per altre vie non esattamente esposte.
Ciò che invece si può fare è seguire il protagonista quando va alla ricerca di storie, recupera appunti, indizi e contatti che gli servono per il suo lavoro giornalistico di cui, al di là degli inserti di fiction, intendiamo il tenore. Fino a scoprire che a essere «fuorilegge» non è solo il reduce della banda della Magliana incontrato durante la dialisi e attraverso cui ricostruisce dinamiche urbane e malavitose ma – in senso più ampio – una intera comunità, che si mette in fila negli ospedali – qui come in Cina – per conquistare i margini sottratti da una ordinaria quotidianità. Gli intermezzi, frutto di invenzione o tratti da altre vicende letterarie, fanno il resto, per concludere che ciò che la pesantezza materica del corpo terrestre impone, la scrittura è capace di restituirci – trasformata in una liberazione che quando si inaugura difficilmente può essere arginata e arrestata. Allo stesso modo sembra che Simone Pieranni con Settantadue lo abbia intuito e per questo abbia trovato il posto per sé. Come dire, fare, baciare. E salvare la vita.
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