Cop28, la transizione non fa rima con Dubai
Summit La Conferenza Onu delle parti sul clima si apre fra una settimana negli Emirati arabi uniti, fra i primi dieci produttori di petrolio. La strada è tutta in salita
Summit La Conferenza Onu delle parti sul clima si apre fra una settimana negli Emirati arabi uniti, fra i primi dieci produttori di petrolio. La strada è tutta in salita
La spada di Damocle dei cambiamenti climatici si convertirà mai nella leva di Archimede di una trasformazione sistemica? La prossima Conferenza Onu delle parti sul clima (Cop28) si tiene a Dubai. Gli Emirati arabi uniti sono fra i i primi dieci produttori di petrolio e coltivano piani di espansione. Tre quarti delle emissioni planetarie sono causate dai combustibili fossili.
GLI ATTUALI IMPEGNI climatici nazionali (in gergo onusiano Nationally Determined Contributions – Ndc) sono di gran lunga insufficienti rispetto alla necessità di restare al di sotto di 1,5 °C di riscaldamento globale per tenere lontano il punto di non ritorno. Il segretariato della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc) ha passato in rassegna gli Ndc trasmessi da 168 paesi: se gli impegni saranno rispettati (e non è detto), senza ulteriori misure, le emissioni di gas serra nel 2030 saranno dell’8,8% superiori al livello del 2010 e solo del 2% inferiori al livello del 2019.
SUL TAVOLO DELLA COP28, il Global Stocktake (Gst), il primo processo di valutazione quinquennale del cammino collettivo verso gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Prende in esame gli elementi chiave: mitigazione, adattamento, mezzi di attuazione e sostegno finanziario. I paesi analizzeranno quanto fatto finora e cercheranno un accordo per accelerare l’azione verso il cruciale 2030. Il tutto nel contesto di una grande ingiustizia climatica: le comunità più vulnerabili alle conseguenze devastanti del riscaldamento globale, del quale sono storicamente molto meno responsabili, hanno pochi mezzi per affrontarle.
NEL 2022, DALLA COP27 IN EGITTO è uscita, a fatica, la decisione di creare un fondo perdite e danni (Loss and damage), un meccanismo finanziario di risarcimento relativo alle conseguenze dei cambiamenti climatici basato sul principio del «chi inquina paga». Il piccolo Stato insulare di Vanuatu nel 1991 fu pioniere nella rivendicazione, poi fatta propria dai paesi meno avanzati.
ORA IL FONDO «LOSS AND DAMAGE» deve diventare operativo. Rimane da definire chi dovrà pagare, chi potrà ricevere, quanto e quando (la bozza di sintesi del Gst propone 200-400 miliardi di dollari entro il 2030). Si impongano tasse ad hoc sulle compagnie fossili, chiedono Greenpeace e il rapporto The Cost of Delay, della Loss and Damage Collaboration. Del resto, ci sarà bisogno di maggiori compensazioni, se la mitigazione è insufficiente.
MA MITIGAZIONE FA RIMA con Dubai? Spiega una nota dell’Istituto Ispi: gli Emirati arabi uniti puntano a incrementare notevolmente la produzione nel prossimo decennio. Idem per gli altri paesi del Golfo. La strategia appare chiara: fare cash sugli idrocarburi finché dura, e finanziare così nel frattempo la propria via alla transizione energetica ed economica (tecnologia, servizi, turismo, calcio), che nelle intenzioni li renderà autonomi dagli incassi dei combustibili fossili. Il presidente designato della Conferenza, Sultan Ahmed al Jaber, è a capo della multinazionale petrolifera emiratina Adnoc e manager impegnato nelle rinnovabili. Asso pigliatutto. Del resto, secondo il rapporto 2023 Production Gap Report, messo a punto fra gli altri dall’Unep, nell’insieme i maggiori paesi produttori programmano di produrre nel 2030 una quantità doppia di combustibili fossili rispetto al tetto che la «regola» degli 1,5°C imporrebbe come limite.
LA RAPIDA FUORIUSCITA dalla triade fossile forse non entrerà seriamente nei giochi della Cop. È certo uno dei pilastri della mitigazione, termine che indica sia gli sforzi per ridurre le emissioni alla fonte sia quelli per rimuovere i gas climalteranti dall’atmosfera. Ma la mitigazione verrà cercata piuttosto negli obiettivi di aumento delle rinnovabili (l’idea di triplicarle entro il 2030), sviluppo tecnologico, efficienza energetica, investimenti nella finanza per il clima. E protezione degli ecosistemi. Perché la natura aiuta: nell’ultimo decennio ha assorbito il 54% delle emissioni di CO2 di origine antropica.
L’ESCAMOTAGE DELLE MONARCHIE petrolifere (e di altri) è non parlare di «fine produzione delle fonti fossili» ma di «riduzione delle emissioni». Rilanciando fra l’altro la fede in tecnologie che possano assorbire e stoccare la CO2 (Carbon capture and storage-Ccs e altre). Anche i paesi più ricchi non produttori di petrolio, per portare avanti la transizione ecologica ed energetica, puntano ancora per un po’ (usando come lessico l’uscita graduale, senza data) sui combustibili fossili. Parlano di «accelerare la progressiva eliminazione» dei soli combustibili unabated, ovvero che non possano essere equipaggiati con le tecniche di rimozione della CO2. Sul tavolo c’è l’eliminazione dei sussidi ai carburanti anti-clima, ma solo se sono «inefficaci». Forse l’unico punto fermo sarà lo stop a nuove esplorazioni di giacimenti fossili, prima del 2030.
CONTRO «DISTRAZIONI E SOLUZIONI «intermedie» come queste, visti anche «i rischi e le incertezze delle tecniche di rimozione e cattura e stoccaggio» (Unep), oltre 100 Ong da 50 paesi hanno scritto alla presidenza della Cop: «Produzione e utilizzo delle fonti fossili devono iniziare a scendere immediatamente in linea con il limite di 1,5°C», si legge nella lettera. «Un’eliminazione completa, rapida, finanziata ed equa dei combustibili fossili è imprescindibile».
UNA TRANSIZIONE EQUA A ECONOMIE decarbonizzate, insieme alla protezione ambientale, richiede mezzi di attuazione e sostegno finanziario ai paesi meno abbienti. E si vedrà se, al di là delle dichiarazioni altisonanti (come quelle dell’Ue), i governi con maggiori capacità economiche e tecnologiche si impegneranno a una transizione vera. In ogni caso, la finanza climatica applicata ad azioni volte a scongiurare scenari apocalittici, non può sostituire i fondi compensativi per perdite e danni e quelli per l’inevitabile adattamento a cambiamenti già inevitabili.
UN ADATTAMENTO CHE NON OTTIENE appoggi, secondo l’Unep; il suo rapporto 2022 Adaptation Gap spiega che le somme stanziate sono gravemente insufficienti rispetto alle necessità, che potranno arrivare a 340 miliardi di dollari l’anno. L’adattamento (per esempio i sistemi di allerta o di protezione dai flutti o altre forme di resilienza) è rischioso e complesso, non attira. Del resto, sempre per il Gap, «i fondi totali destinati all’adattamento e alla mitigazione nel 2020 sono stati pari a circa 17 miliardi di dollari, rispetto ai 100 miliardi da tempo promessi ai paesi in via di sviluppo». A parte poi va considerato il loss and damage finalmente accettato come principio.
UNO STUDIO SU «NATURE SUSTAINABILITY» afferma che, tenendo presente uno scenario nel quale tutti decarbonizzano entro il 2050, i paesi responsabili passati, attuali e futuri di un eccesso di emissioni, dovrebbero pagare agli altri la cifra stratosferica di 6 mila miliardi di dollari all’anno. A titolo di «compensazione per l’appropriazione atmosferica». Giusto e impossibile.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento