Contro ogni violenza sui corpi delle donne l’8 marzo è no war
Le guerre sono combattute sul corpo delle donne, a ogni latitudine. Invasioni armate, occupazioni militari, sanzioni economiche che strangolano i popoli (non i regimi), guerre ideologiche ai flussi migratori o alla pluralità delle identità, che siano etniche, religiose o di genere.
Gli ultimi anni hanno visto un’avanzata brutale del dominio maschile e dei suoi strumenti, che si tratti di frontiere chiuse, femminicidi, licenziamenti e precarietà, imposizione di ruoli, discriminazione delle persone Lgbtqipa+.
Per questo lo sciopero generale transfemminista di oggi, 8 marzo, chiamato da Non Una di Meno (aderiscono Usb, Cub, Cobas, Slai-Cobas, Adl Cobas, Sgb, Si Cobas e Usi) sarà uno sciopero contro la guerra in ogni sua forma. A partire dall’invasione russa dell’Ucraina fino alle battaglie che quotidianamente si combattono nelle nostre case e nei nostri quartieri.
Corpi nelle piazze di tutta Italia per difendere i corpi su cui quelle guerre si abbattono. Lo sciopero è stato in qualche modo anticipato domenica dall’azione dei collettivi femministi delle scuole di Roma che hanno “sanzionato” la sede di ProVita e Famiglia con scritte sui muri e lo striscione «Il corpo è mio e decido io», dopo l’apparizione nella capitale di manifesti antiabortisti («Potere alle donne? Facciamole nascere») che anche lo stesso Comune di Roma aveva fatto rimuovere.
Uno sciopero senza una manifestazione nazionale ma con una mobilitazione diffusa sul territorio: da Roma (alle 17 in piazza della Repubblica) a Milano (alle 18 da Piazza Duca d’Aosta), e poi Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Napoli, Palermo e decine di altre città (l’elenco su Fb: @nonunadimeno).
L’analisi è completa, ragionata: la violenza bellica ha già prodotto i suoi effetti distruttivi, quelli materiali su città e comunità, quelli sociali di una migrazione forzata verso un’Europa che distingue tra profughi “meritevoli” o meno di accoglienza e che ha come sola prospettiva sanzioni economiche che si abbattono sul popolo russo, molto prima e con molta più ferocia di quanto possa mai subire l’élite politica ed economica di Mosca.
E che annulla quanto promesso a fronte della pandemia: «La guerra russo-ucraina – si legge nel comunicato di Non una di meno – ha già azzerato il progetto di rilancio economico europeo, avviato con NextGeneration Eu e con il Pnrr. E l’emergenza climatica scala di nuovo nell’ordine delle priorità: l’approvvigionamento energetico impone il ritorno al carbone, alle fonti fossili e al nucleare per garantire continuità allo sviluppo capitalistico».
«Siamo i corpi, le vite, la carne di cannone di cui si alimenta questo modello di sviluppo», quelle che subiscono per prime il costo delle tante guerre che sui loro corpi si combatte. Che ci sia la “pace” o ci sia la guerra.
Dopotutto, lo sciopero giunge dopo un altro anno di conflitti apparentemente invisibili: in Italia nel 2021 si sono registrati 118 femminicidi, uno ogni tre giorni (di cui 102 commessi in ambito familiare, 70 per mano del partner o dell’ex, secondo la Direzione centrale della polizia criminale). Nel 2020 erano stati 117, nel 2022 già sei.
È stato l’anno dell’affossamento – via voto segreto in Senato – del Ddl Zan contro l’omotransfobia, impedendone il riesame per almeno sei mesi tra le grida di giubilo della destra in aula.
E l’anno del prosieguo della Dad nelle scuole e nei percorsi formativi che ha aumentato il carico familiare delle donne, mentre quello lavorativo si assottigliava: secondo il «Bilancio di genere» del 2021 presentato a gennaio dal ministero dell’economia, l’occupazione femminile è calata sotto il 50% (-10,1% rispetto alla media europea e -18,2% rispetto a quella maschile) e 1,9 milioni di donne sono state costrette al part-time involontario per non perdere il posto. E tra chi, uomini e donne, in tempo di pandemia lo ha perso comunque, le seconde sono state colpite il doppio dei colleghi maschi.
La lotta non ha confini, oggi scioperi e manifestazioni sono previsti in tutto il pianeta, ognuno con le sue priorità: si manifesterà per l’aborto libero, sicuro e gratuito (con le latinoamericane in prima fila, a rivendicare le tante vittorie ottenute nei rispettivi paesi); per la fine della violenza di genere (il caso turco è esemplare, con le donne in mobilitazione da mesi dopo l’uscita di Ankara dalla Convenzione di Istanbul); per un anticolonialismo femminista («Donne libere in Palestina libera», lo slogan delle palestinesi) e per la difesa del proprio modello di società (le donne curde del Rojava, scudo al progetto femminista del confederalismo democratico).
E poi le femministe russe, affatto timide nel condannare l’invasione dell’Ucraina: «Il femminismo come forza politica non può essere dalla parte di una guerra di aggressione. (…) La guerra intensifica la diseguaglianza di genere. (…) Le femministe russe e coloro che condividono i valori femministi devono prendere una posizione forte contro questa guerra scatenata dalla leadership del nostro paese», il messaggio della Resistenza femminista contro la Guerra.
E in rete circola l’appello a un’azione diffusa in tutta la Russia: «8 marzo: posa dei fiori». Tra le 12 e le 16 si invita a deporre fiori in un monumento dedicato alla Seconda guerra mondiale, un messaggio di solidarietà al popolo dell’Ucraina perché «l’8 marzo sia il nuovo 9 maggio», lotta globale al fascismo. In chiusura, un’avvertenza: «Prepararsi alla detenzione».
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