Come annunciato in campagna elettorale, il governo Meloni mette mano al RdC. Via il sussidio per i cosiddetti attivabili, circa 660 mila persone più i 170 mila che lo percepiscono lavorando.

Su questa fascia di beneficiari, attivabili ma che non abbiano nel nucleo disabili, minori o persone a carico con almeno 60 anni d’età, si concentrerà a quanto sembra la scure dei tagli. Ma non da subito. I tagli sostanziali sono rimandati al 2023 quando verrà introdotta una nuova misura. In compenso, dal prossimo gennaio viene abbassato il limite massimo di fruizione, dagli attuali 18 mesi rinnovabili a 7/8 mensilità. Si prevede inoltre un periodo intermedio in cui i beneficiari saranno sottoposti a programmi di riqualificazione e formazione obbligatoria.

Non si capisce in questo caso quale sia la novità, visto che già oggi gli attivabili devono partecipare a questi programmi e che, a regime, anche il nuovo programma di politiche attive del lavoro del Pnrr (Gol) prevede azioni di questo tipo per gli attivabili. E’ bene ricordare, inoltre, che gli incentivi per assumere i beneficiari di RdC già ci sono, senza tuttavia che le imprese ne abbiano mai fatto richiesta più di tanto. Evidentemente i profili professionali degli attivabili non sono quelli ricercati sul mercato del lavoro.

Il punto sostanziale sono i tagli, stimati in circa 1,5 miliardi. Andava dato un segnale per colpire chi, come era stato detto in campagna elettorale, preferisce il divano al lavoro. Per il resto si continua con la retorica degli incentivi e dei bonus per favorire le assunzioni.

Secondo l’ultimo rapporto Inps, negli ultimi vent’anni alle imprese sono andati circa 20 miliardi per interventi di questo tipo, senza tuttavia produrre granché, né in termini di qualificazione del lavoro, né di stabilità e contrasto alla precarietà. A giudicare dai risultati degli anni scorsi non si capisce bene come queste risorse aggiuntive possano invertire un trend di bassa e cattiva occupazione che si è consolidato anche per il largo utilizzo di incentivi slegati da obiettivi di politica industriale.

Il governo ha perso l’occasione per una seria revisione del Reddito di Cittadinanza, puntando a un risparmio di spesa che non servirà a migliorare il mercato del lavoro. In compenso si potrà dire che finalmente si è dato un taglio ai poveri che possono ma non vogliono lavorare.

Da destra si sostiene che chi lavora non dovrebbe cumulare un sussidio che integra i bassi salari, perché così si produce un disincentivo al lavoro che in molti settori, specialmente quelli dove è strutturalmente bassa la produttività, causa carenza di manodopera. Dietro queste affermazioni c’è una parte di verità che tuttavia, nella retorica antifannulloni dominante, viene scaricata unicamente sui beneficiari, colpevolizzandoli, senza considerare il peso dei fattori strutturali, cioè il tipo di domanda di lavoro con cui si confrontano quotidianamente.

Il mercato del lavoro italiano ha problemi in alto, cioè nei settori ad alto valore aggiunto (bassa domanda di lavoro qualificato), quanto in basso (molto lavoro poco qualificato e poco pagato nei settori a bassa produttività). E’ con questo quadro che dovrebbero confrontarsi le riforme del mercato del lavoro e del RdC.

La drammatica caduta degli investimenti pubblici e la bassa dinamica di quelli privati sono alla base della stagnazione della produttività nei settori forti. Nei settori deboli i problemi sono diversi ma per certi versi più allarmanti. Qui la bassa produttività sfocia non tanto nella compressione salariale ma nella povertà nonostante il lavoro.

Non devono stupire i 5 milioni di persone (il 23% dei lavoratori italiani) che secondo l’Inps hanno retribuzioni inferiori al RdC. E’ il riflesso di un problema strutturale che riguarda un mercato del lavoro in cui è cresciuta l’occupazione ma a fronte di una compressione salariale che quasi non eguali in Europa, per l’alto livello di part-time femminile, il numero esiguo di ore lavorate, l’incidenza del lavoro a termine e paghe misere, soprattutto peri i giovani.

A quanto pare per il governo Meloni il problema del lavoro povero si risolve togliendo il sussidio a chi è attivabile ma non ha trovato lavoro e a chi lavora prendendo anche il sussidio. In realtà la direzione da prendere dovrebbe essere tutt’altra. Non solo andrebbe rafforzata la possibilità di cumulo tra sussidio e reddito da lavoro, come peraltro proposto dalla Commissione Saraceno e anche dall’Alleanza contro la povertà. Di più, andrebbero introdotti meccanismi di integrazione dei redditi bassi, sotto forma di in-work benefit, per chi, precario o lavoratore povero, è al di sotto di una soglia minima di retribuzione, vale a dire il salario minimo, un tema che è uscito dai radar ma che rimane fondamentale per dare risposta alla questione salariale.