La destra al governo ha deciso di lasciare la sua impronta nella storia della Repubblica. Lo testimoniano da ultimo il controllo concomitante della Corte dei conti, la resurrezione delle province, il remake del Pnrr. Per non parlare delle nomine a raffica e dell’occupazione del servizio pubblico radiotelevisivo.

I filoni principali rimangono però il presidenzialismo, giunto ora a una versione premierato, e l’autonomia differenziata. La tempistica si mostra diversa. Giorgia Meloni ha commesso l’errore di mettere quasi tutto in mani leghiste, e Calderoli ne ha ampiamente approfittato, avviando in tempi brevissimi l’iter parlamentare. È possibile che stia trattando già ora con qualche regione più impaziente quel che potrà essere la futura intesa ex art. 116.3 della Costituzione. Se così non fosse, non avrebbe senso l’interlocuzione che a quanto si dice è stata già avviata con alcuni ministeri.

Ma Giorgia Meloni ha molto di più di cui preoccuparsi che non la diversa tempistica delle sue riforme. Dovrebbe piuttosto considerare che la linea di demarcazione tra riformatori e sfasciacarrozze può diventare sottile fin quasi a svanire, se non si hanno idee chiare e progetto di sistema. Che nel suo caso mancano.

Cogliamo la virata verso il premierato. Ma cosa significa? Elezione diretta del premier? Indicazione del primo ministro sulla scheda elettorale? Elezione da parte delle camere riunite? Fiducia iniziale o investitura automatica? Potere di nomina e revoca dei ministri? Sfiducia costruttiva? Potere di scioglimento anticipato delle camere? Simul stabunt simul cadent, come nelle regioni? C’è da scegliere.

È bene però sapere che nelle società frammentate di oggi l’elezione diretta favorisce la divisione e la contrapposizione piuttosto che l’unità, perché si vince coalizzando le estreme e non convergendo al centro. E che nel nostro sistema le correzioni in chiave di maggioritario hanno aumentato la frammentazione, favorendo partitini in cerca del swing vote per un maggior potere contrattuale. Nelle coalizioni qualunque partito – anche piccolo o piccolissimo – può avere una golden share che diventa il vero elemento di instabilità dei governi.

Si giunge così al paradossale esito di ritenere indispensabile il rafforzamento di esecutivi che sono già di fatto padroni assoluti della produzione legislativa. Ma nessuna ingegneria costituzionale potrà impedire al presidente Zaia di turno di minacciare un giorno sì e l’altro pure la crisi di governo se non ottiene l’autonomia. Se necessario, lo fermeranno i suoi sodali di partito collocati a Palazzo Chigi.

E veniamo al punto veramente decisivo. La madre di tutte le riforme non è la forma di governo – presidenzialismo, premierato o altro – ma l’autonomia differenziata, anche se la prima passa per la modifica della Costituzione e la seconda no. Questo per almeno due motivi.

Il primo. Qualunque sia la forma di governo scelta, funzionerà in modo diverso in un sistema che rimane unitario, o che invece si frammenta in staterelli semi-indipendenti. Il secondo, e cruciale, motivo è che con una riforma modello Calderoli si svuotano di risorse, poteri e funzioni le stanze di Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi.

Un parlamento e un governo che vedono indebolirsi strutturalmente il bilancio statale e perdono gli strumenti di legislazione e amministrazione necessari a formulare e implementare politiche pubbliche strategiche di portata nazionale diventano ospizio per zombies e personaggi in cerca di autore. È uno scenario reso possibile o persino probabile dall’AS 615, che restringe la formazione delle intese in una trattativa tra il ministro delle autonomie e i governatori interessati, emarginando il parlamento e le autonomie locali.

Per questo ho incluso nella memoria depositata per l’audizione in I Commissione del Senato emendamenti che riportano le decisioni di merito sull’autonomia differenziata in parlamento, e alzano qualche argine sulle funzioni suscettibili di trasferimento. Argini poi consolidati giuridicamente dalla proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la modifica degli artt. 116.3 e 117 promossa e sostenuta dal Coordinamento per la democrazia costituzionale. L’abbiamo presentata in Senato, con oltre centomila firme, il 1° giugno.

La palla ora passa alle forze politiche. Sempre che non vogliano un governo di zombies dominante su un parlamento di zombies. Un contesto in cui il premier non potrebbe che essere uno zombie al quadrato.