Cessate il fuoco, protezione dei civili, assistenza umanitaria e fine degli attacchi sulle strutture sanitarie: sono alcune delle richieste mosse da 18 operatori e operatrici di Medici senza Frontiere Italia in una lettera aperta al governo italiano. Ne abbiamo parlato con Tommaso Fabbri, capomissione della ong in Palestina.

Come nasce l’iniziativa?
Nasce da una situazione catastrofica che non sappiamo più come descrivere. Nasce per sensibilizzare chi in maniera diretta e indiretta ne è responsabile. A Gaza da mesi vediamo morte, attacchi indiscriminati sulla popolazione civile, ospedali distrutti. Non c’è più un posto sicuro, non c’è alcun rispetto dello spazio umanitario. Il nostro è un grido disperato al governo Meloni: serve una pressione efficace per il cessate il fuoco e la protezione dei civili. Non chiediamo cose politicamente inaccettabili, è il minimo per uno stato democratico.

Perché chiederlo ora?
Lo chiediamo da tanto, il nostro segretario generale ha parlato anche al Consiglio di Sicurezza Onu. Ma non si è mosso nulla e ora a preoccuparci è Rafah: ogni volta che c’è un ingente spostamento di popolazione il rischio sanitario è enorme.

Alcuni stati lanciano aiuti dal cielo, gli Stati uniti hanno promosso un porto temporaneo appoggiandosi a ong come World Central Kitchen e Open Arms. Molti criticano tali iniziative: è un modo per bypassare gli obblighi di Israele ad aprire i valichi di terra. Qual è la vostra posizione?
Uno degli sforzi maggiori del mio team riguarda l’accesso agli aiuti umanitari. È un problema cronico, esasperato dalla guerra: è Israele che ha sempre deciso quando aprire o meno l’ossigeno a Gaza. Il lancio di aiuti dal cielo è una modalità estremamente costosa, pericolosa e poco efficiente. Ben vengano le iniziative come il porto ma non devono essere messe in competizione con il resto, non si deve deresponsabilizzare Israele dal suo obbligo primario di fare entrare gli aiuti dai valichi di terra.

Nelle scorse settimane Msf è stata costretta a sospendere le attività in alcuni ospedali di Gaza. Per quali ragioni?
Abbiamo dovuto lasciare più di 12 strutture, o per evacuazioni imposte da Israele o per prevenzione quando vedevamo che i bombardamenti si avvicinavano. Membri del nostro staff sono stati uccisi. Ora siamo tornati all’ospedale Al Aqsa, all’Emirati hospital e al Nasser. Ma potremmo fare molto di più. Abbiamo uno staff di 400 persone che lavora ininterrottamente da mesi, c’è bisogno di ricambio, di muoversi in maniera sicura. Il cessate il fuoco è fondamentale per dare il minimo dei servizi a una popolazione stremata.

Israele colpisce ripetutamente gli ospedali, li pone sotto assedio. Perché lanciare una tale offensiva contro la sanità?
Sono attacchi indiscriminati sulle persone, come se i civili dovessero pagare il prezzo di questa guerra. Con 36mila uccisi in pochi mesi è difficile pensare che siano solo effetti collaterali. In questa guerra non c’è rispetto per i civili né per le strutture sanitarie, tutto è considerato parte della guerra. Lavoro da anni nell’umanitario e non ho mai visto attacchi così indiscriminati.

Avete presidi anche in Cisgiordania. Qual è la situazione?
Preoccupante. La Cisgiordania è lo specchio di Gaza. Oltre alle migliaia di uccisi, feriti e arrestati, chiusure e checkpoint limitano l’accesso alla salute. Chi vive nei campi profughi è sotto la pressione costante di attacchi dell’esercito israeliano. È la punizione collettiva dei civili: i soldati entrano dentro e con i bulldozer distruggono case, tubature dell’acqua, impediscono l’accesso agli ospedali durante le incursioni.

Nel processo di Trapani a Msf, Iuventa e Save the Children, lei è stato accusato di essere un tassista del mare. Dopo sette anni sono cadute tutte le accuse.
La sentenza è stata un sollievo enorme, ma dimostra che c’era la volontà di manipolare la verità per descrivere le ong e chi ci lavora come dei criminali. Una strategia mortale per chi prova a scappare da situazioni difficili che mina a livello sociale il concetto di solidarietà.